Ippocrate: recensione della commedia drammatica ospedaliera francese con Vincent Lacoste e Reda Kateb
Un giovane interno alle prese con le prime responsabilità di medico.
Il passaggio dalla teoria alla pratica è traumatico per tutti gli studenti universitari che si affacciano al mondo del lavoro. A maggior ragione per i medici. Lo racconta con realismo e molta cura, se ci permettete il gioco di parole, il regista Thomas Lilti. Il motivo è semplice, nella vita fa (anche) un altro lavoro, mai abbandonato, quello di medico generico, e in Ippocrate ha girato nei corridoi di un ospedale parigino in cui lui stesso si è affacciato per anni come specializzando e poi interno. Il protagonista si chiama Benjamin, il suo secondo nome, ed è interpretato dall’emergente Vincent Lacoste, lanciato proprio da questo film, uscito in Francia quattro anni fa, con il primo ruolo drammatico e da protagonista, per cui ha portato a casa un nomination ai César.
Una curiosa carriera, quella di Lilti; una bocciatura alla scuola di cinema l’ha portato a intraprendere gli studi di medicina, più che altro per quieto vivere e per far contento il padre, anche lui medico. In contemporanea ha scritto e diretto vari corti, per poi esordire nel 2007 con l’inedito da noi Les Yeux bandés, dirigendo dopo Ippocrate, nel 2016, un altro film in camicie bianco, usctio anche nelle sale italiane, come Il medico di campagna.
L’ospedale è diviso in gironi: c’è quello bianco lucido a contatto con i pazienti e i visitatori, fatto di professionalità e ostentata cortesia, poi ci sono i bui sotterranei della mensa degli specializzandi, sempre a far festa e bere, con dei riti di iniziazione da confraternita universitaria, e gli alloggi per chi è di turno durante la notte, cupi e pieni di scritte sulle pareti che neanche Il conte di Montecristo. Un ospedale è un posto pieno di umorismo, sembra talvolta una puntata di Scrubs, e Lilti, dall’alto della sua esperienza, ci sfata un mito: non è vero che infermieri e personale medico schifano le serie sui medici, tutt’altro, si vedono a getto continuo il dottor House durante le lunghe notti di guardia.
Ogni nuovo medico che finisce i dodici lunghi anni di studio e formazione è un novello Ippocrate, pronto a giurare di superare il rito d’iniziazione che lo porterà dalla teoria alla pratica, dalla cura della malattia a quella del paziente, dando la giusta importanza al rapporto umano da instaurare con pazienti (e parenti), specie per uno specialista di medicina interna. La sua vita al 90% si svolge all’interno dell’ospedale e spesso, come mostra Lilti, i turni di notte, quelli più scomodi o festivi se li devono sorbire gli stranieri, più grandi di età e con maggiore esperienza ospedaliera. Ipprocrate è anche un omaggio a loro, attraverso il personaggio dell’algerino Abdel, il solito ottimo Reda Kateb, alle prese con anni che potranno cambiargli la vita, e permettergli di portare in Francia la famiglia rimasta in patria.
Benjamin è molto diverso da Abdel, è molto convinto di sé, un po’ strafottente, protetto dal padre che guida il reparto. Il film è anche il percorso di scontro e riassestamento nel rapporto fra queste due entità: una lunare e una solare. Le paure, gli errori, il senso di colpa, sono dolorose le montagne russe da superare per Benjamin, piene di dubbi sul suo sincero amore per la professione. Ippocrate è originale e agrodolce, pieno di sorprese, divertente e pensoso, con una vena di disincanto e di laicissimo fatalismo.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito