Io sono l'abisso: recensione del thriller di Donato Carrisi
Per la sua terza regia, intitolata Io sono l'abisso, Donato Carrisi adatta di nuovo un suo romanzo e reintroduce, in un thriller dove l'acqua è onnipresente, la figura del serial killer, icona pop degli anni '90 qui simbolo di infanzia violata.
Una volta, parlando del suo doppio mestiere di scrittore e regista, Donato Carrisi ha detto: "Scrivo un romanzo come se fosse un film e dirigo un film come se fosse un romanzo". Se è facile intuire il significato della prima frase, che si riferisce a uno stile cinematografico e cioè visivo, il senso della seconda è più complesso, ma lo si afferra facilmente dopo aver visto Io sono l'abisso.
Pur adattando molto fedelmente l'omonimo libro pubblicato nel 2020, il filmmaker che ha ricevuto dalle mani di Spielberg il David di Donatello per la migliore opera prima rinuncia innanzitutto ad alcuni degli elementi costitutivi di un film, a cominciare dalla musica extradiegetica, completamente assente quasi fino alla fine. Anche i dialoghi sono scarni, e il passato dell'Uomo che Pulisce, o meglio la sua dolorosa infanzia, a cui nel libro sono dedicati diversi capitoli, è riassunta in poche sequenze, che però sono incisive e perciò perfettamente comprensibili. L'impressione generale, quindi, è che lo spettatore, proprio come solitamente fa il lettore, sia chiamato a riempire con la sua fantasia i vuoti e a immaginare, nel caso specifico, il fuori-campo, a cominciare dal volto dell'assistente sociale che è l'unica presenza positiva della fanciullezza dell'Uomo che Pulisce.
Ovviamente, in questa modalità niente affatto ridondante di racconto, molto è affidato al gioco dell’attore, o meglio dei due attori protagonisti, che si sono messi completamente al servizio dei personaggi. Carrisi sapeva di potersi fidare e affidare, in modo da essere messo in condizione di chiedere un'altra cosa allo spettatore: di non condannare a priori il serial killer che uccide donne mature bionde e sole. Per sortire questo effetto lo scrittore riabilita il cattivo, che asseconda la rivoluzione che solo l’amore può innescare e diventa un salvatore, quasi un eroe, certamente un angelo custode che rompe il cerchio del male salvando una vita.
Certo, non è ottimistica la visione dell'umanità che ha Donato Carrisi, che racconta la solitudine degli adulti e i demoni interiori dei bambini e dei ragazzi. In più, quasi nessuno è felice in questa sua storia, come appare chiarissimo dalle inquadrature sghembe, che ci parlano di una visione distorta delle cose, di un’inquietudine diffusa e di uno scollamento dalla realtà, che sputa fuori chi è troppo magrolino, chi ha sulla testa due cicatrici che sembrano chiusure lampo, chi cerca il principe azzurro fuori tempo massimo, chi si è rifugiato nell'alcool e perfino chi si è lasciato andare fisicamente. In uno scenario tanto fosco, è la speranza l'ancora a cui Donato Carrisi ci lascia aggrappare: peccato che non siamo in un mare azzurro ma in un lago limaccioso, che con i suoi mulinelli tira giù corpi e detriti e che nasconde, ingoia, logora e poi restituisce a pezzi, a significare che l'acqua, presente quasi dall'inizio alla fine del film, ha smesso di essere simbolo di vita e rinascita per diventare scenario di morte e strumento di oblio.
Ubbidendo ciecamente al regista, che ci ha pregato di non svelare i nomi degli attori, possiamo solo sottolineare ancora una volta l’impegno dei protagonisti. Colui che interpreta l'omicida seriale ha fatto per esempio un ottimo lavoro sulla voce, sui movimenti e sulla postura dell’Uomo che Pulisce, perseguitato da un carnefice di cui sentiamo solo la voce e che si fa chiamare Micky proprio come Topolino.
E’ un film complesso Io sono l’abisso, con una ricostruzione d’ambiente e una fotografia meno efficaci di quelle de L’uomo del Labirinto e un cast meno all star rispetto a La ragazza nella nebbia, dove si confrontavano i due giganti Jean Reno e Toni Servillo. Ma se in quel caso la vicenda si svolgeva in una località di montagna immaginaria, qui è la cornice temporale a essere sfumata, indefinita. Coesistono per esempio uno smartphone, un cellulare dei primi anni Duemila e telefoni pubblici in cui inserire monete. Ci sono vecchie ville in cui il tempo si è fermato, e ci sono da una parte internet, inteso come luogo virtuale in cui "esercitare" il bullismo, e dall'altra la spazzatura, che a differenza di Instagram, dove i filtri restituiscono un'immagine fasulla dell'individuo, non mente, perché noi siamo quello che buttiamo: i barattoli vuoti di crema idratante con cui speriamo di eliminare le rughe, avanzi di cibo che non dovremmo mangiare, biglietti di nightclub dove ci siamo illusi di acchiappare per la coda la felicità.
Tutto questo è molto vero e molto triste, e Donato Carrisi ci conduce per mano nell'abisso delle colpe che non possono essere lavate, da cui si può uscire solo esercitando la compassione. La compassione, che sia da intendere in senso cristiano o come sinonimo della pietas dei latini, significa capire prima di tutto la tragedia di un'infanzia violata e impedire, come prova a fare La Cacciatrice di Mosche, che la violenza fisica e psicologica sulle donne diventi uno dei grandi rimossi delle nostre società evolute.
Compassione, infine, vuol dire non dividere l'umanità in buoni e cattivi, non vedere soltanto i bianchi e i neri ma accettare anche l'esistenza di una zona grigia, dove le acque non troppo profonde riescano a placere il turbinio dell'animo umano e dove le porte verdi che ci separano dal nostro malvagio alter-ego rimangano il più possibile chiuse a chiave.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali