Invictus, la recensione del nuovo film di Clint Eastwood
In un’opera meno personale e sommessa dei lavori a cui ci ha ultimamente abituato Clint Eastwood dimostra definitivamente la sua indiscutibile qualità di autore capace di girare qualsiasi storia e renderla cinema importante. Uno spettacolo classico ed edificante, come i grandi del passato sapevano fare un tempo
Invictus - la recensione
Analizzando la sua opera in prospettiva, sono film meno personali come quest’ultimo Invictus a dimostrare con maggiormente pienezza lo spessore di Clint Eastwood, forse addirittura più dei suoi capolavori più sentiti, tra i quali si possono a nostro avviso annoverare i recenti Changeling o Gran Torino. La raggiunta classicità a cui l’autore ha saputo portare il suo stile di regia trova infatti sorprendente conferma in questo lungometraggio che evita con accuratezza la trappola del biopic agiografico per diventare pian piano parabola sportiva, con tutta la (in questo caso sana) retorica che si accompagna al genere. A sbalordire è la semplicità con cui l’idea portante della prima parte del film - la volontà del presidente del Sudafrica Nelson Mandela di adoperare la Coppa del Mondo di Rugby del 1995 come evento per compattare un paese ancora diviso da conflitti razziali - viene poi attuata nella seconda parte, quella più propriamente dedicata alla tenzone sportiva.
Una discreta dose del merito di questa fluidità narrativa è senz’altro da attribuire alla buon adattamento del libro di John Carlin scritto da Anthony Peckham; ma fin dai primi minuti di proiezione si capisce chiaramente che è la scorrevolezza della regia di Eastwood a traghettare storia, personaggi e messaggio verso uno sviluppo che si fa tanto lineare quanto efficace. Allo stesso modo appare fondamentale anche il rapporto simbiotico che il cineasta ha sviluppato con il suo montatore Joel Cox, il quale ancora una volta riesce ad equilibrare la semplicità delle immagini con un ritmo di racconto precisissimo e fluente, alla maniera del cinema di una volta.
Di fronte ad un film come Invictus la sensazione è quella, magari vagamente straniante ma comunque del tutto piacevole, di assistere ad un film epico del periodo classico di Hollywood. Nella capacità di abbinare analisi introspettiva sui personaggi e spettacolo popolare torna alla memoria la lezione di John Huston, cineasta da sempre ammirato da Eastwood. Tra gli ultimi lungometraggi di quel grande autore figura un’opera sottovalutata come Fuga per la vittoria, la quale possedeva delle soluzioni di montaggio e alcune scelte nei tagli delle inquadrature che sembrano essere riproposte in Invictus, soprattutto per quanto riguarda le sequenze dedicate alla competizione sul campo da rugby. A prescindere comunque dai rimandi storici che la pellicola di Eastwood ci propone, essa rimane un lavoro dal respiro cinematografico decisamente maggiore rispetto ai film più intimisti, alle “opere da camera” quali possono essere considerati molti dei suoi ultimi lungoemtraggi. Perfettamente conscio di questo, il regista modifica neppure tanto impercettibilmente il suo stile e lo rende più aperto e fluido, pur rimanendo dentro i canoni estetici che meglio gli competono. Ed è proprio questo suo non intestardirsi nel girare Invictus come se fosse Million Dollar Baby o Changeling che dimostra l’immensa lucidità con cui Eastwood sa approcciarsi al cinema, anche a quello che magari sente meno vicino alle sue corde.
Un’ultima annotazione sui due attori principali, Morgan Freeman e Matt Damon, entrambi assolutamente efficaci nei ruoli di Mandela e del capitano degli Springboks Francis Pienaar. Perché rilegare quest’ultimo nella categoria dei “non protagonisti”, quando è il suo personaggio ad avere il ruolo fondamentale nella storia, quello di portare a compimento sul campo da gioco l’idea dell’altro? A questo va aggiunto che è la figura di Pienaar a possedere l’arco narrativo più interessante, il motore emotivo della vicenda, mentre la figura di Mandela, per quanto affascinante carismatica, mantiene per tutto il film la sua coerente visione. Paragonare Invictus a molti degli ultimi lavori di Clint Eastwood sarebbe un errore di valutazione imperdonabile: si tratta di tutt’altro progetto, sia nel respiro che nella portata produttiva. Se un accostamento deve essere fatto, forse lo si può trovare nell’epicità e nell’affresco storico del molto meno riuscito Flags of Our Fathers. Rispetto a quel lavoro scentrato Eastwood evita divagazioni, sta incollato alla storia principale, ne segue lo sviluppo emotivo poggiandosi sopra la sua messa in scena, sempre così elegante nella sua classicità. Il livello di cinema ottenuto con questo film è notevole, e supera a pieni voti anche i pericoli che un’operazione del genere comportava.
- Critico cinematografico
- Corrispondente dagli Stati Uniti