Ingeborg Bachmann - Journey into the Desert: recensione del film di Magarethe von Trotta in concorso alla Berlinale

19 febbraio 2023
2.5 di 5

Dopo Hannah Arendt la regista tedesca racconta la grande poetessa e scrittrice, affiadandone il ruolo a Vicky Krieps e concentrandosi sul suo rapporto travagliato con Max Frisch e sul viaggio in Egitto con Adolf Opel. Recensione di Federico Gironi.

Ingeborg Bachmann - Journey into the Desert: recensione del film di Magarethe von Trotta in concorso alla Berlinale

Qualche mese fa sono stato a Parma, alla prima edizione di un festival organizzato da Paolo Nori che si chiamava "Questa è acqua", dove alcuni ospiti parlavano al pubblico dei libri della loro vita, e Francesca Mannocchi, una di queste ospiti, aveva parlato del suo amore per Ingeborg Bachmann, dicendo che portava sempre un suo libro con sé, e citando frammenti delle lettere strazianti che si scambiavano lei e Max Frisch, suo grande e tormentato amore.
È proprio attorno alla storia d’amore con l’autore svizzero che Margarethe von Trotta costruisce il suo film su Ingeborg Bachmann. Attorno a quello, e al viaggio sensuale e liberatorio fatto in Egitto con Adolf Opel dopo la dolorosa separazione da Frisch. E infatti, il titolo completo del film della Von Trotta è Ingeborg Bachmann – Journey into the Desert.

Dopo una partenza quasi onirico-psicanalitica, von Trotta mescola i piani temporali e del racconto, alternando momenti del viaggio di Bachmann nel deserto con la sua vita con e senza Frisch, stando bene attenta a infilare nelle scene e nelle sequenze tutte quelle cose che, messe assieme, raccontano secondo la regista la vita e le opere e il pensiero della grande poetessa e scrittrice austriaca.
E quindi non mancano gli accenni al Gruppo 47 e l’abbandono alla poesia, e Roma, via Giulia, Hans Werner Henze e le traduzioni di un Ungaretti interpretato da Renato Carpentieri, le troppe sigarette e le troppe pillole, in una serie di quadretti studiatissimi. Come studiatissimi sono scenografie, arredi, costumi, gli abiti della Bachmann interpretata da Vicky Krieps: tanto da rendere molte inquadrature simili a scatti usciti da qualche rivista di moda femminile dell’epoca.
E però, è chiaro che più che come artista, Bachmann alla von Trotta interessa come donna. Anzi, come femminista. È chiaro nel modo in cui racconta dei conflitti tra lei e Frisch, delle loro cause e delle parole con cui vengono portati avanti. È chiaro nel modo in cui si parla del viaggio in Egitto, con tanto di foursome liberatorio seguito da una didascalica corsa nel deserto e un’esplicita rivendicazione contro “i tanti piccoli borghesi” che hanno tarpato la libertà della donna nel corso degli anni.

Anche qui, però, quadretti studiati ad hoc, un po’ statici, sicuramente programmatici, infarciti di legittime ma un po’ rigide citazioni e scaldati come può da una Krieps che è la cosa più vitale, sebbene sempre molto trattenuta, di questo film. Un film che, viene da pensare, non è sufficientemente esplicativo per chi Bachmann non la conosce, e troppo superficiale per chi invece la conosce.
E se le rivendicazioni femministe che emergono dagli scambi con Frisch possono avere le loro ragioni, e raccontate così come sono raccontate rendono sicuramente facile l’immedesimazione delle spettatrici, il dubbio è che banalizzino e semplifichino troppo la complessità di un rapporto ben più sfumato e profondo.
Allora, e torno alla Mannocchi e a quanto aveva letto, quelle righe lì, di un epistolario pubblicato da poco e ancora inedito in Italia, sono state sicuramente più esplicative ed emozionanti di tutto questo film troppo rigido, impostato e vagamente polveroso.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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