In fondo al bosco: recensione del mistery con Filippo Nigro e Camilla Filippi
Alla sua seconda regia, Stefano Lodovichi dimostra di saper padroneggiare i generi e di sapersene distaccare.
Quando il cinema lo si conosce e lo si ama da tempo immemore, quando ci
si è formati guardando E.T.
L’extraterrestre e I predatori
dell’arca perduta e si è sentito parlare più e
più volte del "lato oscuro della forza", mescolare i riferimenti e gli
omaggi – per poi distaccarsene magari ricorrendo a un paio di depistaggi
– è una cosa che viene naturale.
Certo, per raggiungere
buoni risultati la cinefilia da sola non basta, perché il gioco dei generi funziona solo
se a giocarlo c’è qualcuno che possiede una grande capacità di
scrittura e una notevole intelligenza – nonché chiarezza di intenti –
nel modo di organizzare le immagini.
Quelle che Stefano Lodovichi crea e con discreta perizia monta restituiscono uno scenario fin troppo noto ai frequentatori di thriller, mistery e fantasy, però, oltre che belle, sono anche molto altro. Sono un luogo dell’anima, innanzitutto, dei recessi più profondi dell’io, nascondigli in cui la debole fiammella dell’onestà ogni tanto si spegne, lasciando che a inghiottire la coscienza sia un buio denso e impenetrabile che coincide con il male.
Sa giocare con gli incanti e la magia spesso nera della montagna il regista
toscano, che ha scelto come location del suo dramma familiare la Val di Fassa. Sa trovare il
terrore e il "perturbante" perfino nelle giornate più terse e cristalline il
ragazzo, anche se la sua macchina da presa dà il meglio nella restituzione della
natura più fitta, una natura che non è solo "aspra, selvaggia e
forte", ma antica, mitica, evocativa e struggente come i quadri dei pittori
romantici.
Raccogliendo la lezione di Friederich,
Turner e Goya, Lodovichi si
diverte, e apre la porta ai mostri reali e immaginari, alla sventurata parabola di un bambino
che potrebbe avere sotto i capelli i famigerati tre 6, ma potrebbe pure essere la vittima di
un abbandono, di un maltrattamento o semplicemente degli errori di una mamma e di un
papà disattenti.
Ecco, pur intrecciando in maniera sempre più rapida presente e
passato e accrescendo di fotogramma in fotogramma l’aura demoniaca che
sprigiona dal piccolo Tommi,
In fondo al bosco spinge anche nella direzione
opposta al terrore, rivelando l’ottusità di nuclei familiari e sociali
dall’educazione sentimentale inadeguata o assente, di comunità
ermeticamente chiuse che nello "straniero" cercano un capro
espiatorio.
Senza alludere direttamente a noti casi di cronaca, il film denuncia
così le nefandezze di genitori incapaci di assumersi le proprie
responsabilità, dimostrando di essere coerente con la precedente filmografia del
regista, ossessionato dai legami familiari. Il suo modo di descriverli qui non è
retorico, perché passa sempre attraverso un dolce inganno narrativo, una rete in
cui far cadere miseramente lo spettatore che ritiene di aver capito tutto.
Con un budget più alto e tempi di lavorazione più lunghi, In fondo al bosco avrebbe consentito a Lodovichi di insistere maggiormente sui personaggi di contorno e di indugiare piacevolmente nella rappresentazione della famigerata festa dei Krampus che fa da sfondo alla scomparsa del bambino, ma dovendo scegliere, il regista ha preferito concentrarsi sull’intreccio. Dei protagonisti Camilla Filippi e Filippo Nigro ha scelto di fidarsi, e ciecamente. Ha fatto bene, perché la prima ha accettato di imbruttirsi diventando incredibilmente autentica, mentre il secondo è riuscito completamente ad aderire a un personaggio commovente nella sua debolezza e in una tenerezza che alla fine diventa forza.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali