Il vegetale: la recensione del film con Rovazzi scritto e diretto da Gennaro Nunziante

16 gennaio 2018
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Un oggetto strano, gentile, fuori dal tempo eppure tutto dentro al mondo in cui viviamo. Tra Candido e le utopie.

Il vegetale: la recensione del film con Rovazzi scritto e diretto da Gennaro Nunziante

Di un uomo o una donna di non particolare bellezza, ma che risulta purtuttavia interessante e financo intrigante, si dice - o si diceva, non so - che è “un tipo”. Applicando lo stesso procedimento al cinema, si potrebbe dire che anche Il vegetale è un tipo.
Quello, o anche che è un marziano, un folletto, un oggetto strambo e spurio che, nel panorama del cinema italiano del Terzo Millennio, sembra quasi esserci capitato per caso.
Ma per caso, secondo me, Gennaro Nunziante non fa e non ha fatto nulla, e anzi è grandissima la consapevolezza che ha messo in ogni situazione, in ogni dialogo, in ogni svolta di una storia che dice tanto sui tempi che stiamo vivendo proprio perché sembra tenersene a distanza, che non ha paura di passare inosservata facendo quello che oggi appare oramai quasi inaudito: essendo gentile, garbata, educata. Non urlando mai.

Gentile, garbato, educato, addirittura onesto - roba da vietare il film ai minori - è il Fabio Rovazzi interpretato da Fabio Rovazzi, ventiquattrenne per questo e non solo diverso da tanti altri. Diverso sicuramente dal co-inquilino pugliese cialtrone (e per questo irresistibile). Diverso da quelli che vanno da Barbara D’Urso a raccontare storie tragiche infiocchettate a dovere. Diverso dagli altri laureati in Scienze della comunicazione che lo stage nella grande azienda in veste di distributore di volantini non l’hanno voluto fare, o l’hanno fatto a metà, o da quelli che per un paio di mesi in campagna - sempre sotto stage - a raccogliere pomodori o pascolare pecore mica ci son voluti andare.

Fabio Rovazzi, invece, con quell’aria smarrita e lunare che deriva anche da un certo evidente e reale disagio, dal non sentirsi evidentemente proprio al suo posto su un set cinematografico, lui tutto questo lo fa. Lo fa per inseguire un sogno irrealizzabile, ma con una caparbietà dolce e quasi commovente.
Resiliente, lo si definirebbe oggi, con questa parola che va tanto di moda. Di una resilienza da cinema muto, da comica slapstick, perché lui alla fine non si scompone di fronte a nulla: gli stage assurdi, il coma del padre che non vedeva da anni, le responsabilità che gli piombano sulle spalle assieme a una sorellina che non aveva mai conosciuto e che gli darà filo da torcere. Lui è uno che affronta tutto, con calma, gentilezza e onestà: smantellando l’impresa di costruzioni truffaldina del genitore, partendo per i paesini del reatino, mettendosi a raccogliere verdure incurante della giacca e della cravatta che aveva indossato credendo di dover svolgere chissà quali mansioni.

E però Fabio non è mica un vegetale, checché ne dica il padre, o la vulgata che dipinge in un certo modo le giovani generazioni. Sarà pure resiliente, e ottimista ingenuo dal candore voltairiano, ma non è mica un cretino. Anzi.
E non è cretino nemmeno Gennaro Nunziante, che mica si poteva limitare alla bonaria, e poi nemmeno, presa in giro di luoghi comuni pigri e stanchi come quelli sulla Milano città europea e locomotiva d’Italia, o quelli sul ritorno alla terra, alla campagna, ai paeselli fatti di belle persone  - tutti immigrati, oramai, o quasi -, maestrine dagli occhi dolci e buoni sentimenti. Perché quelle lì sono le utopie stanche dei padri, mica quelle dei figli.
E allora, quando Fabio torna a Milano, e scopre la verità sul suo stage di campagna, e sull’amico bonario lì conosciuto, ecco che qualcosa in lui cambia, e cambia nel film, che mica sceglie la strada più ovvia. Perché la strada più ovvia, che è quella dell’assunzione, non c’è più.

Resiliente, sì. Gentile anche, onestissimo. Ma mica cretino. Fabio si riprende ciò che è suo, lo sottrae a chi ha fatto di tutto per ammazzare il suo futuro e l’utopia se la costruisce su misura, prendendo il meglio di quelle dei padri, della città e della campagna, e riassemblando il tutto come meglio crede. Che poi è lo stesso che fa Nunziante con i cliché di certa commedia, e della narrazione sul presente, e sulle generazioni.
Fabio e Nunziante: tutti e due meno ingenui e candidi di quello che sembra, o vogliono far sembrare. Due che sì, gentile, garbati e onesti, ma che alla fine, con la gentilezza, il garbo e l’onestà, riescono nei loro rispettivi obiettivi.
E Il vegetale - che magari proprio bello non è ma che è comunque un tipo - è, come loro: meno ingenuo e semplice di quanto possa sembrare. Uno a cui, comunque, male non puoi proprio volere.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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