Il Traditore: recensione del film di Marco Bellocchio con Pierfrancesco Favino in concorso al Festival di Cannes 2019
L'attore romano è bravissimo nei panni del superpentito Tommaso Buscetta, che nelle mani di Bellocchio diventa personaggio tragico e shakespeariano.
Marco Bellocchio lo aveva detto, che questo suo nuovo film non avrebbe assomigliato a nessuno dei suoi precedenti, ed è vero. E se il paragone più immediato e ovvio è sempre e sicuramente quello con Buongiorno, notte - per via dell’elemento di ricostruzione storico-biografica di un personaggio reale - qui manca un netto scarto immaginifico e onirico che faceva deragliare quel film su Aldo Moro dai binari di una narrazione tradizionale.
Se manca, è perché Bellocchio non l’ha voluto, non certo perché non ne sia capace.
Perché ovviamente Tommaso Buscetta è un personaggio completamente diverso dal Presidente della DC ucciso dalle Brigate Rosse; così come completamente diversi sono gli impatti rispettivi sulla storia del nostro paese. Ma anche perché l’impressione è che Bellocchio abbia voluto fare di Don Masino un personaggio tragico, di stampo shakesperariano, e che quindi richiedeva un tipo di racconto diverso, e più lineare.
Da quando ce lo presenta il giorno di Santa Rosalia del 1980, mentre si aggira con aria preoccupata e pensierosa per i saloni della grande villa che ospita la festa che avrebbe dovuto segnare la pace tra palermitani e corleonesi, e che poi è stata preambolo per la Seconda guerra di Mafia, fino al momento della sua morte, avvenuta vent’anni dopo, Bellocchio racconta il suo Buscetta come un personaggio fatto di ombre, opaco, che non si rivela mai davvero a chi ha attorno a sé - e quindi a noi che guardiamo.
Tranne, forse, in alcuni momenti di luce e trasparenza nei confronti col giudice Falcone, il Buscetta di Il Traditore sembra sempre impegnato in una qualche forma di recita, o di operazione mimetica atta a nascondere qualcosa di sé. O da sé.
È anche per questo, sembra dire Bellocchio nel suo film, che Buscetta andrà incontro all’umiliante interrogatorio nel corso del processo a Giulio Andreotti, che ne demolirà la credibilità di testimone e ne segnerà l’inizio di un declino patetico e inarrestabile.
Supportato da un Pierfrancesco Favino alle prese nell’interpretazione più complessa e riuscita della sua carriera fino a questo momento, e da un cast tutto a livelli altissimi - su tutti il Fabrizio Ferracane che interpreta Pippo Calò, ma anche il Lo Cascio che fa Totuccio Contorno: lo dimostrano le scene che ricostruiscono gli interrogatori del maxiprocesso di Palermo, in assoluto le migliori del film, capaci di unire la forza del dramma e l’aderenza alla realtà -, Il Testimone è un film lineare, certo.
Semplice, se vogliamo, nella sua forma di racconto: ma forse solo in apparenza, nonostante certi raccordi e certe didascalie narrative un po’ ovvie, quasi più da fiction che da cinema.
Perché Bellocchio non va alla ricerca del colpo d’ala, o dell’introspezione più esplicita e ovvia.
È tra le pieghe di quel racconto, tra i silenzi di Buscetta e tra le sue parole, che si nasconde il senso di un film che non è solo una ricostruzione storica rigorosa e documentata, ma anche una finestra che si affaccia sul mistero, le contraddizioni e i sogni infranti di un protagonista che Bellocchio non giudica mai col metro della facile morale, e con cui non è di certo spietato ma nemmeno indulgente.
Anche gli scarti bellocchiani, allora, si fanno più sottili, sfumati e mimetici. Si vedono e non si vedono, come Andreotti stesso, in mutande, che Buscetta intravede nella sartoria dove andrà a farsi l’abito per il maxiprocesso (senza riuscire, successivamente, a mettercelo, in mutande), in momento quasi sorrentiniano.
Le parentesi oniriche sono limitate allo spazio che gli è proprio, quello del sonno, ora angosciose, ora orizzonti impossibili di speranza. Perché se prima Buscetta andava e veniva tra due mondi, col suo “tradimento” è poi diventato uno che andava e veniva tra due muri, in bicicletta nel corridoio della Questura dove era detenuto per i colloqui con Falcone, e tra la verità e la menzogna delle sue dichiarazioni.
Uno che che aspettava di vedere chi, fra lui e il giudice dell’Antimafia, sarebbe morto prima. È toccato prima a Falcone, a sua moglie, alla sua scorta: ma in qualche modo, nell’attesa dell’inevitabile, una parte di lui se n’era andata con quel giudice che lo conosceva come nessun altro e che aveva dato una nuova dimensione ai suoi “due mondi”: non più Italia e America, ma stato e cosa nostra.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival