Il talento del calabrone: la recensione
Un thriller "radiofonico", diretto da Giacomo Cimini e interpretato da Sergio Castellitto, Lorenzo Richelmy e Anna Foglietta. Disponibile in streaming a partire da mercoledì 18 novembre in esclusiva su Amazon Prime Video.
Il drone che vola sopra Milano di notte e le sue luci, nemmeno fosse Nuova York. Di sottofondo, "Crazy" di Gnarls Barkley (nel 2020, vabbe'...).
E poi il grattacielo della radio famosa, e il dj diversamente simpatico che dice "Raga", e che chiede agli ascoltatori di rispondere alla domanda per vincere i biglietti d'apertura della fashion week.
Impossibile, nei primissimi minuti del Talento del Calabrone, non farsi tornare in mente il ritornello di "Storia di un artista" dei Cani, quello che fa così:
Noi che a Milano ci andiamo
Per la moda e la radio
Per cercare contatti
Perché lì stanno le cose che ci piacciono
I dischi, le foto, i registi
I marchingegni alla moda
Le muse, gli artisti
E sentirci diversi, creativi, speciali
Tutto, tranne normali
Di certo, il richiamo è involontario. Ma in qualche modo indicativo di molte cose che riguardano questo film di Giacomo Cimini.
Fatto sta che mentre il dj dal braccio tatuato continua la sua diretta con malcelato disprezzo nei confronti del suo pubblico, eppure lusingato dalle attenzioni ricevute, arriva la telefonata di colui che diverrà la sua nemesi: uno lucidissimo squilibrato che minaccia attentati dinamitardi (e non solo) e che non si capisce bene cosa voglia, oltre a strappare all'aspirante Fabrizio Corona della console il controllo della sua trasmissione.
Peraltro, appare subito chiaro che quella tra Steph (Stefano, all'anagrafe), il dj dal braccio tatuato e la parlantina ggiovane, e Carlo, il folle attentatore che gli parla al telefono da un'utilitaria che attraversa le strade di Milano, vestito con uno smoking, è anche un'opposizione in qualche modo ideologica, e non solo per l'abbigliamento e il look.
Nello studio della popolare radio milanese alla moda da dove Steph va in onda rimagono tutti a bocca aperta e sguardo vitreo quando Carlo spiega loro il significato etimologico di "simpatia", nemmeno avesse cercato di spiegargli la teoria di Feynman sui positroni che viaggiano all'indietro nel tempo.
E poi, siccome a chi chiama in radio non si nega mai la richiesta musicale, a maggior ragione se chi chiama si porta appresso una bomba all'ozono, ecco che Carlo inizia a chiedere brani di Bach e Beethoven e per di più in alcune esecuzioni specifiche: altro che Gnarls Barkley, un'impensabile follia, come se un redattore di Radio Tre e di Primo Movimento si fosse improvvisamente impadronito del palinsesto della radio milanese alla moda, quella dalle cui frequenze Steph è solito gridare "Big night Milano, big night Italia!" (rigorosamente in quest'ordine).
Non sono queste, sterili osservazioni sui dettagli o sulla forma del racconto.
Non lo sono anche perché fino a una rivelazione finale che getta una luce di parziale originalità sulla vicenda, legata alle motivazioni del dinamitardo, l'impianto narrativo del film di Cimini è così lineare e risaputo da rendere la sua forma, la messa in scena (pure curata, molto, anche troppo) e i dettagli, l'elemento sul quale puntare l'attenzione.
E non lo sono soprattutto perché, alla luce di quella rivelazione nel finale, quel tipo di opposizione sociale e culturale lì, che vede il mondo di Steph e quello di Carlo (che poi è un ex geniale professore di fisica col pallino di musica classica) andare a confliggere, assumerà una rilevanza non secondaria.
La forma, dicevamo. Curata, molto, anche troppo, con la fotografia al neon di Maurizio Calvesi.
E ancora: gli sforzi fuori bersaglio di Lorenzo Richelmy nei panni di Steph, e Anna Foglietta tenente colonnello dei carabinieri in abito da sera (perché veniva dritta dalla vernice di una mostra in Piazza Duomo) ma con la fondina ascellare della pistola assosso, e costretta dal copione a molti più piani d'ascolto basiti che non battute, e non si sa bene se sia una salvezza o una condanna, se le facce che deve fare sian meglio delle cose che dice.
E il poi contenuto. Che è un po' Speed (ma senza bus e senza Keanu Reeves e Dennis Hopper), un po' Talk Radio e un po' Il colpevole.
Son modelli evidenti, questi, per Il talento del calabrone; e parlando di modelli verrebbe da tirare in ballo la teoria del trash di Tommaso Labranca, quella per la quale il trash non è in senso letterale un prodotto spazzatura, ma il frutto di un'emulazione fallita, lo scarto tra le intenzioni e i risultati, capace di generare una fascinazione perversa e consapevole.
In mezzo a tutto questo, Sergio Castellitto. Che recita da solo, in smoking, in macchina, e si arrabbia, e minaccia, e torna soave, e diventa malinconico, e piano piano svela il suo gioco, tra una minaccia che coinvolge un ignaro rider (che fai, non ce lo metti un rider nella Milano di Sala pre-Covid?) e un virus informatico alla Stuxnet con cui gioca con le luci cittadine. Un Castellitto che, in mezzo a tutto questo, pare quasi Marlon Brando.
Tanto per rimanere in linea coi temi del film e senza entrare nel dettaglio, il suo, in questo contesto, pare quasi un atto di bullismo.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival