Il punto di rugiada: la recensione del film di Marco Risi
Due ragazzi giovani e scapestrati, una casa di riposo, i loro anziani ospiti. Marco Risi parla di età, di vita, di generazioni, di incontri. Un film che vive volutamente in uno spazio e in un tempo isolati e vagamente irreali, ma capace di tenere la testa alta anche quando inciampa. La recensione del film di Federico Gironi.
L’impatto non è semplicissimo. Vuoi per lo stile della regia, vuoi per il modo in cui Marco Risi fa recitare alcuni suoi attori. Non è semplicissimo, soprattutto è un po’ straniante. Ti sembra quasi che in quel mondo così démodé, in quella casa di riposo per anziani che sembra una bolla nello spazio e nel tempo, un luogo di transito, un limbo in attesa di un trapasso, o dell’inizio di una nuova vita, il tuo sguardo contemporaneo sia sempre fuori luogo.
Come se tu arrivassi in sneaker e felpa col cappuccio in un salone frequentato solo da signori in giacca e cravatta e paltò, e da signore con abiti lunghi e scialli eleganti. Come se la musica che hai nelle cuffie senza filo andasse a sbattere con i classici che escono da giradischi d’altri tempi.
Il punto di rugiada, fuori dal tempo (e dallo spazio del cinema italiano contemporaneo) e forse anche da un restrittivo concetto di realtà, lo è del tutto volutamente. È un film vestito di eleganza classica e impeccabile come quella del suo autore, e che come il suo autore quell’eleganza la indossa con la nonchalance di chi non vi dà troppo peso, e non ne è mai prigioniero. Si tratta di stile, non forma.
Quanto allo stridere di due dimensioni temporali e esistenziali diverse, beh: altro non è che il cuore stesso del film.
Due ragazzi del mondo di oggi, per ragioni diverse, finiscono a prestare servizio sociale nella casa di riposo che è teatro (quasi) unico delle vicende. Lì uno di loro, il più tormentato e irrisolto, troverà un conflitto, un rispecchiamento, un legame profondo con uno degli anziani ospiti, che per lui diverrà il punto di riferimento che gli era sempre mancato.
Risi, che quel personaggio agé lo battezza con lo stesso nome di suo padre, Dino, e che gli attacca addosso le stesse manie, gli stessi hobby, lo stesso umorismo tagliente, gira questo film alla stessa età in cui il genitore aveva diretto Primo amore, e sarà anche un caso, ma anche il segno che, arrivati a un certo punto, i conti con la vita e quel che ci sarà o non sarà al termine della stessa vanno fatti.
Vanno fatti tanto più oggi, in un’epoca in cui l’anzianità viene rimossa nel migliore dei casi, derisa in altri, mentre la giovinezza viene mitizzata e glorificata da un lato, e squalificata con superbia da un’altro.
Ecco: se pure Il punto di rugiada non è esente da inciampi, Marco Risi non incappa mai in questi errori, mantenendo sempre un punto di vista perfettamente a fuoco sulle diverse stagioni della vita, sulla vitalità della gioventù e l’esperienza della vecchiaia, trovando così il modo - che appare troppo stesso dimenticato - di farle dialogare tra loro in maniera reciprocamente costruttiva.
Allora, lentamente, il disagio provato all’inizio del Punto di rugiada - che è anche il disagio di confrontarsi con l’anticamera della morte, e con il peso dei bilanci esistenziali di una vita, il cui fantasma aleggia su di noi a ogni età - si va via via dissolvendo, come si vanno dissolvendo il disprezzo e la diffidenza di Carlo nei confronti degli ospiti della casa di riposo.
Pacificata no, serena tutto sommato neanche, la vecchiaia raccontata da Marco Risi nel film è però sempre vitale, mai rassegnata, caparbia. Forte di un carattere che Carlo saprà scoprire, e anche ereditare.
Risi non arretra di un passo di fronte alla morte, non la rimuove né la minimizza. Trova anzi lo spazio per parlare, con grande pudore, di eutanasia, della libertà assoluta di scegliere. Anche quando non è necessario.
Non spezza mai l’eleganza rétro delle sue immagini e delle situazioni, anche quando potrebbe risultare goffa o ridicola, e omaggia una generazione d’attori dando spazio non solo a Massimo De Francovich, interprete di Dino, che ha in sé anche qualcosa del Joe Gideon di All That Jazz, ma Eros Pagni, Elena Cotta, Erika Blanc, Maurizio Micheli, Luigi Diberti. Che lo ripagano, tutti, ampiamente.
Il passo, a volte può rivelare un po’ di stanchezza, a volte si fa zoppicante, ma la testa del film e quella di Risi sono sempre alte, fiere, concentrate e con lo sguardo fisso al loro obiettivo. E, a volte, c’è anche di che commuoversi.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival