Il ponte delle spie, la recensione del film di Steven Spielberg con Tom Hanks

04 dicembre 2015
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Tratto da eventi realmente accaduti durante la Guerra Fredda, si avvale del contributo in sceneggiatura dei fratelli Coen.

Il ponte delle spie, la recensione del film di Steven Spielberg con Tom Hanks

Ci fosse stato Abraham Lincoln, a negoziare lo scambio di prigionieri tra USA, URSS e DDR, nella Berlino fresca di muro (e ancora ferita dai bombardamenti) del 1961, a naso sarebbe finita male. Molto male. Invece c’era James Donovan, avvocato d’origine irlandese specializzato in cause assicurative, padre di famiglia, convinto giurista e, soprattutto, “uomo tutto d’un pezzo”. Un tipo dai sani principi e dagli alti ideali, grazie ai quali riesce in una missione: impossibile.
Insomma, dall'elogio del primato della politica e del pragmatismo del precedente biopic presidenziale, Steven Spielberg slitta con elegante e funambolica coerenza verso quello dell’etica a tutti costi. Perché è grazie all'etica, ai suoi principi democratici e a un umanitarismo mai velleitario che James Donovan porta tutti a casa: piloti, studenti, successi.

Non è un caso che la parte più bella del Ponte delle spie - splendido esempio di narrazione classica e lineare, dove la retorica è ancora qualcosa di nobile e dove sono personaggi e psicologie a trionfare sulla messa in scena - sia la prima. Quella che va dall'arresto semi-hitcockiano della spia sovietica Rudolf Abel (un meraviglioso Mark Rylance, una sorta Harry Caul senza paranoie) alla sua incarcerazione, passando per l'introduzione del personaggio di Donovan e la sua nomina ad avvocato difensore dell’uomo più odiato d’America.
Lo è perché è quella nella quale il cinema di Spielberg è più fluido e cristallino, meno inquinato dalle esigenze di ricostruzione storico-politica della seconda, ma anche perché è lì che si costruiscono le fondamenta etico-filosofiche di Donovan: nel suo rapporto col lavoro, con la famiglia, nei suoi richiami alla deontologia e alla Costituzione fatti davanti ad agenti della CIA come a giudici della Corte Suprema.

È grazie a quella passione, quella fiducia nelle leggi universali del diritto e dell’umanità, che Donovan troverà successivamente la forza (morale, prima che psicologica, o fisica) d’imporre una linea - la sua linea - a russi, tedeschi dell’est e perfino ai suoi connazionali, tutti affetti da un eccesso di realpolitik. Ed è grazie a ciò che noi non possiamo che parteggiare per lui, fuori da ogni retorica: come parteggiamo senza remore, ma con adesione totale, per il Will McAvoy di The Newsroom.
James e Will sono lo stesso personaggio, da un punto di vista etico-narrativo; sono gli eroi che non scambiano l’idealismo, la coerenza e il rispetto di sé e della propria professione per ingenui donchisciottismi, ma li prendono come punti di partenza irrinunciabili per lo svolgimento del loro lavoro, senza sovrastrutture. Oggi più che mai, quindi, coerenza ed etica sono rivoluzionarie, sono elementi dirompenti in grado di ottenere l’impossibile, e Spielberg lo spiega bene.

Bene perché ne è cosciente, bene perché il suo cinema è limpido e senza sbavature, essenziale ma non minimalista: un cinema dal sapore chiaro e dal gusto pulito, che non bisogna essere intenditori di whisky per riconoscere.
Bene perché, più di ogni cosa, non fa mai di Donovan un personaggio superomistico, da piedistallo, ma perché lo cala per bene dentro quell'umanità fatta di solide certezze e di piccole falle: fossero solo quelle di un raffreddore.
Il merito è suo, certo, ma quei piccoli tocchi di disordine e irrequietezza che fanno capolino nel copione (dalla liaison appena accennata tra l'assistente di Donovan e sua figlia, a certe sottili gag berlinesi, passando per la caratterizzazione di alcuni personaggi, Abel su tutti)  portano la firma indelebile dei fratelli Coen, professionisti nel ritrarre personaggi comuni alle prese con eventi straordinari, più grandi di loro, caotici.
Anche se l’esito delle vicende, esigenze della Storia a parte, è puro Spielberg, con un rientro al nido domestico in odore di quel Frank Capra il cui spirito aleggia sopra tutto il racconto e al sapore dolce di marmellata d’arance.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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