Il mio migliore incubo - la recensione del film di Anne Fontaine
L'algida e frigida intellettuale alto borghese si scontra con il grossolano e volgare appartenente alla classe operaia. E lo scontro si tramuta progressivamente in un incontro.
L'algida e frigida intellettuale alto borghese si scontra con il grossolano e volgare appartenente alla classe operaia. E lo scontro si tramuta progressivamente in un incontro. Non c'è un grammo d'originalità, in questo assunto che è alla base di Il mio miglior incubo!, film cui si è dedicata Anne Fontaine dopo aver raccontato sul grande schermo Coco (Avant) Chanel.
La regista lo sa bene, e per questo spinge la sua commedia verso le zone più periferiche e di confine del genere e dell'assunto in questione, stando però sempre bene attenta a non avventurarsi nell'inesplorato.
Nel film Isabelle Huppert (sempre più maniera di sé) è la donna che si ama detestare dal primo istante, mentre Benoit Poelvoorde è lo zoticone che risulta simpatico ma solo al cinema: concentrati puri di stereotipi di classe che la Fontaine gestisce con agile sfacciataggine, aggiungendovi un pizzico di darwinismo intellettuale e una manciata di comicità slapstick, e facendone le fondamenta uniche della sua storia.
Nonostante siano i motori dell'incontro tra i due, le questioni relative ai rispettivi figli dei due sono difatti più che accessorie, così come quelle che toccano invece il marito di lei André Dussolier e l'assistente sociale di lui Virginie Efira: ovviamente destinati ad un percorso comune.
L'esito degli scontri tra i due protagonisti è scontato, ché si sa (ed è vero) che è nel meticciato, nella bastardaggine che si trovano progresso e miglioramento, e quindi la Fontaine cerca di spostare l'accento sul ritmo e sul brio di regia e sceneggiatura.
Ostentatamente, fin troppo. Centrando qualche momento e qualche battuta, ma senza il coraggio di osare davvero. Finendo col legarsi indissolubilmente a consuetudini tanto francesi e molto irritanti. E, forse proprio in questo trovando alcuni spunti azzeccati.
Come ogni autrice che tenta la critica ironica alla sua classe, la Fontaine non si libera da quella bonomia d'appartenenza che impedisce qualsiasi appunto realmente tagliente o caustico, ma a tratti la coperta è troppo corta. E qualche punto scoperto e sensibile viene inconsciamente esposto.
Non basta, ma va sottolineato.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival