Il corpo, la recensione: un thriller caleidoscopico e intrigante che riflette libero le tanti luci del genere

24 novembre 2024
3.5 di 5
4

Vincenzo Alfieri, impegnato nel remake dello spagnolo El Cuerpo, gira un film ambizioso, che guarda ai De Palma e ai Polanski e che non ha paura di essere libero. Una scommessa ardita, ma vinta. La recensione di Il Corpo di Federico Gironi.

Il corpo, la recensione: un thriller caleidoscopico e intrigante che riflette libero le tanti luci del genere

Lui è giovane, belloccio, brillante. Lei è meno giovane, ricchissima, con un senso dell’umorismo discutibile. Sono sposati, lei muore, lui non è che proprio sia dispiaciutissimo. Poi, una notte di pioggia, dopo il funerale, mentre sta con la giovane amante supersexy, lui viene convocato dalla polizia: il cadavere della moglie è sparito. Siccome che l’abbia uccisa lui pare abbastanza chiaro, resta da capire il resto? Dov’è il corpo della morta? Ma è morta veramente? E questi interrogativi, più che la polizia, turbano assai il poco addolorato e molto preoccupato vedovo.
Questa la trama, ma la trama conta poco. Conta poco perché Il corpo è un remake; conta poco perché, anche se funziona bene ed è precisa, e la sceneggiatura è astuta e curata, a contare - di più - è altro. Se la trama conta poco, in fin dei conti, per quanto astuta e in fin dei conti perfino avvincente, considerate le regole del genere, è perché Il corpo è un film fatto e pensato col cinema. Il che, coi tempi che corrono, e nel nostro paese in particolare, non è cosa frequentissima: specie quando si parla di cinema di genere.

L’impatto - anche per certi risvolti della recitazione - può essere in qualche modo spiazzante, perché Vincenzo Alfieri parte subito dritto e deciso per la sua strada, che è una strada fatta di astrazione, stilizzazione, di rifiuto del realismo, di ossessione per le superfici, i riflessi, la composizione delle immagini.
Non si tratta di estetismo, né di formalismo, perché basta poco, pochissimo, e Il corpo mette in chiaro come il suo tessuto geografico, (il)logico e psicologico coincidano perfettamente con le esigenze di un copione nel quale, dal punto di vista del protagonista, e dal nostro, tutto è in qualche modo irreale e assurdo, e quindi nel quale tutto è possibile. Anche l’impossibile.
Quel tessuto, il tessuto del Corpo, è un tessuto fatto di immaginario cinematografico, imbevuto fino al midollo di chiare ossessioni e riferimenti, popolato di fantasmi che rendono benissimo le intenzioni di Alfieri e il loro senso ultimo.

Allora, non appena i protagonisti prendono possesso di quello spazio impossibile, quasi escheriano, in cui si svolgono le vicende principali, che è un po’ obitorio, un po’ stazione di polizia un po’ luogo alla Silent Hill, ecco che la stilizzazione di ispirazione manniana lascia il posto a riferimenti polanskiani. Di quel Polanski che arriva di doppia sponda tramite Una pura formalità di Giuseppe Tornatore: sarà la pioggia che non smette mai di cadere, sarà per l’isolamento geografico, sarà per il duello tra logica e assurdo tra un investigatore e un indagato. Che poi a un certo punto Alfieri lasci intravedere le immagini di un capolavoro come Femme Fatale la dice lunga su quanto Brian De Palma e le sue ossessioni visive (e pure un po’ psicologiche) siano entrate dentro al Corpo.

Alfieri assorbe il cinema che ama, assorbe l’originale spagnolo, assorbe il copione che ha scritto assieme a Giuseppe Stasi (sì, quello di The Bad Guy). E dopo aver assorbito, riflette tutto sullo schermo in maniera liberissima, senza preoccuparsi di esagerare.
Il corpo diventa così la rappresentazione caleidoscopica e liberissima di un cinema che non ha paura di essere senza freni e senza filtri, che allarga, sbraca, esagera, si contrae e si espande nuovamente. Che respira. Che dice cose in libertà, senza perdere il filo di un discorso. Che contravviene alle regole perché le regole - del genere - le conosce benissimo, e le rispetta. E allora mescola come gli pare il giallo, il thriller, perfino l’horror, senza dimenticare le storie di vendetta che hanno nel Conte di Montecristo la loro origine più profonda.
È divertente, Il corpo. Divertente, perversamente intrigante e pagliaccione; a suo modo perfino rigoroso e intelligente. Nelle immagini come nella scrittura: ascoltate per credere (anche) il monologo arrabbiato sulla tristezza di un Battiston ottimo come al solito, che ribalta qui in maniera rocambolesca il suo Stucky televisivo.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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