Il castello nel cielo - recensione del film di Hayao Miyazaki
Doveroso recupero in sala, con ventisei anni di ritardo, del primo lungometraggio di animazione dello Studio Ghibli, opera terza del grande Hayao Miyazaki, noto finora col titolo originale di Laputa.
“Quando sei scesa dal cielo mi sono emozionato: doveva essere per forza l'inizio di qualcosa di grande”: queste sono le semplici parole che Pazu rivolge alla sua amica Sheeta, caduta dal cielo leggera come una piuma e da lui raccolta. Incidentalmente sono anche le parole che racchiudono in sé la disarmante efficacia di un lungometraggio di animazione di Hayao Miyazaki risalente al 1986 e che solo oggi arriva nelle nostre sale grazie alla Lucky Red.
Il castello nel cielo ha un altro primato, oltre a quello di essere l'esordio ufficiale dello Studio Ghibli: Hayao Miyazaki aveva diretto nel '79 Lupin III – Il castello di Cagliostro e nel 1984 Nausicaä della Valle del vento, ma quest'opera è la prima del maestro giapponese a nascere da un racconto pensato appositamente per il cinema. Alla storia di Pazu e Sheeta quindi Miyazaki e il suo compagno di sogni Isao Takahata (qui producer) affidavano un ambizioso manifesto poetico identificato con una nuova realtà produttiva e creativa. Nemmeno Hayao pensava all'epoca che lo Studio Ghibli avesse speranze di sopravvivere a lungo, e se i fatti lo hanno smentito in modo così eclatante è perché Il castello nel cielo combina una veemente sicurezza autoriale (in contenuti e stile) con una tecnica cinematografica trascinante.
Esisterà davvero Laputa, il castello volante da molti considerato una leggenda? Il giovane minatore Pazu ne è convinto, perché il suo defunto padre sostenne di averlo scorto tra le nuvole, e anche perché la dolce Sheeta sembra avere un legame col misterioso luogo. Sulle tracce di Sheeta e di Laputa ci sono però tutti: l'esercito, un misterioso individuo e una scalcinata banda di pirati dell'aria, capitanati dalla bellicosa Mamma Dola.
Il pilota è Miyazaki, e non c'è da stupirsi se in due ore di proiezione si attraversa di tutto: il cielo, l'aria, la guerra, la pace, la morte, la vita, il sacrificio, l'amicizia, (forse) l'amore, la natura, l'ecologia. Laputa, il cui nome è esplicitamente ricondotto all'isola degli scienziati alienati di Swift in "I viaggi di Gulliver", richiama col suo aspetto da dismessa Torre di Babele bruegheliana l'idea della hýbris, la “superbia” della tragedia classica che porta al disastro perché legata a una violazione di leggi imprescindibili. Chi abbia famigliarità con l'opera di Hayao sa già che per l'autore tali leggi sono quelle della natura: niente è più inesorabile delle radici di un albero, nemmeno armi che qualcuno nel film paragona ai poteri del Dio che distrusse Sodoma.
Il panorama che si presenta allo spettatore-passeggero offre anche altre vedute: si plana su una piacevole atmosfera steampunk non troppo marcata, attraverso gli echi dell'Isola del Tesoro (Dola è proprio Long John Silver), incrociando la malinconia di King Kong nelle luci intermittenti di biodroidi violenti solo su colpevole richiesta, atterrando su un cinema spettacolare, che rielabora in modo personale il senso di meraviglia necessario al grande racconto d'evasione. Con un volo così difficile è normale che, a ruote posate sulla pista, scatti l'ennesimo applauso al capitano.
- Giornalista specializzato in audiovisivi
- Autore di "La stirpe di Topolino"