Il buono, il matto, il cattivo - la recensione
Dopo l'horror di Two Sisters e il noir Bittersweet Life, il coreano Kim Jee-woon continua a sperimentare con i generi, questa volta omaggiando Sergio Leone.
Il buono, il matto, il cattivo - la recensione
In una Manciuria degli anni Quaranta, parzialmente occupata dai Giapponesi e non ancora cinese, una misteriosa mappa del tesoro fa gola a molti. Vi s'imbatte per caso su un treno il bandito folle e creativo Tae-goo (il "matto"), inseguito dal cacciatore di taglie Do-won (il "buono"). Per sventura di Tae-goo, il micidiale killer Chang-Yi il "cattivo") e la sua banda avevano ricevuto l'incarico di rubare la stessa mappa. Tutto questo, insieme alla partecipazione di improbabili banditi cinesi e dell'esercito giapponese, viene cucinato dal regista coreano Kim Jee-woon in un trasparente omaggio a Sergio Leone, ma non solo.
Tra le qualità migliori di Il buono, il matto, il cattivo c'è di sicuro la regia: abituato a non fossilizzarsi sui generi, Jee-woon è passato dall'horror di Two Sisters al noir alla John Woo di Bittersweet Life. L'incipit del film con l'assalto al treno sveglia lo spettatore occidentale con un dinamismo visivo potente e trascinante. Seguire l'azione alle spalle di un personaggio con occasionali zoomate nella sua stessa direzione di marcia fa riflettere: in tempi in cui si discute di 3D, i mezzi formali basilari della ripresa classica bastano ancora a conferire un senso di vertigine e profondità. Altrettanto degno di nota il prefinale con un inseguimento titanico in pieno deserto, accompagnato dalla versione strumentale di "Don't Let Me Be Misunderstood", e nella sua assurdità più memore dei Blues Brothers che di Leone. O anche, considerando la pessima mira dei cattivi, memore del western pre-spaghetti, zona John Wayne.
Il problema è semmai che questi momenti memorabili comporranno una quarantina di minuti del film, che dura oltre due ore. Se infatti il gusto ipercoreografico dell'azione seduce, in mezzo c'è la narrazione, affidata a uno spirito picaresco e a uno humor ingenui e sopra le righe: il "matto" del bravo Kang-Ho Song è un po' Eli Wallach, un po' Sammo Hung nei film di Jackie Chan. E Byung-hun Lee, già interprete del diverso protagonista di Bittersweet Life, ha un'elasticità che di certo non ricorda Lee Van Cleef.
La contaminazione e lo scherzo possono diventare un boomerang, quando il film ha bisogno di recuperare l'empatia con i protagonisti sin troppo urlati e bidimensionali, o persino di inserire note storiche e tragiche. Il cocktail stridente e schizofrenico di umorismo demenziale e sacrificio sarà forse una cifra di questo tipo di cinematografia, ma appare anche piuttosto lontano dall'ironia epica di Leone, a dispetto delle risapute ispirazioni orientali di quest'ultimo.
- Giornalista specializzato in audiovisivi
- Autore di "La stirpe di Topolino"