Hunger - la recensione del film di Steve McQueen
Esce finalmente nelle sale italiane il film che ha segnato il debutto nel cinema del regista di Shame, il video artista Steve McQueen. Già allora in coppia con Michael Fassbender.
Sulla carta, quello di
Hunger poteva rappresentare un debutto
insolito per un personaggio proveniente dal mondo della video arte come
Steve McQueen.
Il film, infatti, racconta della rivolta attuata nel carcere nordirlandese di Maze
all’alba degli anni Ottanta, quando i detenuti dell’IRA, per costringere il governo
inglese a dargli lo status di prigionieri politici, diedero prima il via ad uno sciopero
dell’igiene e successivamente, per iniziativa di Bobby Sands, ad uno sciopero della
fame che portò alla morte dello stesso Sands e di altri nove detenuti.
Ma, a dispetto del tema e a conferma del talento di chi siede dietro la
macchina da presa , quello di McQueen
non è un film “politico” nel senso tradizionale del termine: perché, oltre che
soffermarsi con estrema crudezza sulla crudeltà del personale carcerario britannico e
sulla sofferenza fisica dei detenuti, mira forse sopra ogni altra cosa al racconto di
vicende umanissime e profondamente intime, quasi spirituali. Su tutte quella del
Bobby Sands interpretato da
Michael Fassbender, che, con una scelta narrativa insolita e
decisamente encomiabile, emerge come vero protagonista solo a film inoltrato.
Una scelta che rappresenta solo uno dei molti spiazzamenti messi in campo
da McQueen, che per raccontare le sue
storie di inquietanti mortificazioni fisiche e corporali si affida ad una forma curatissima
e raffinata ma assolutamente mai patinata.
Hunger è un film che a un realismo spietato e
crudele, gelido eppure violentissimo, riesce ad associare momenti di elevatissima
astrazione visiva e cinematografica, culminando in un finale bellissimo e struggente
che conferma la coerenza di un progetto negandone in apparenza quelli che erano
state le sue colonne portanti.
Un finale nel quale al dolore tutto carnale, palpabile, di un Sands che muore
di fame si affiancano le sue visioni astratte, intime e mai retoriche. Nel quale al
deperimento del corpo si associa il viaggio metafisico dentro sé stessi, dalla
spiritualità profonda e perversamente ascetica.
Colpisce ancor più in profondità, in un film che si costruisce su questa
ambigua e duplice natura profonda dell’immagine e della sua capacità di veicolare
sensi, che il suo fluire eloquentissimo sia intervallato da una scena incredibile, dove
la fisicità dello sguardo cede completamente il passo al potere (e, assieme, ai limiti)
della parola. Un piano sequenza unico e reale di oltre 20 minuti, composto da una
conversazione serratissima tra Fassbender
e il bravissimo caratterista irlandese
Liam Cunningham (nel ruolo non casuale di un prete, in un
film che abbiamo appunto definito quasi spirituale).
Al di là dei meriti degli interpreti e del regista che li dirige, questo momento
inconsulto che spezza Hunger, nei suoi contenuti e
nel suo semplice essere, non fa altro che confermare la consapevolezza profonda di
un autore e la coerenza di un film che trova nelle ambiguità e nelle contraddizioni le
chiavi della sua innegabile potenza.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival