Happy End: la recensione del film di Michael Haneke in concorso al Festival di Cannes 2017

22 maggio 2017
2.5 di 5
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L'austriaco torna a essere programmatico come un tempo, e le sue riflessioni sulla crisi del mondo occidentale rimangono troppo in superficie.

Happy End: la recensione del film di Michael Haneke in concorso al Festival di Cannes 2017

Come in Niente da nascondere, c'è un qualcuno che riprende in segreto qualcun altro. È una ragazzina di tredici anni, che col suo iPhone gira video mostra la vita con la mamma depressa, il criceto a cui ha dato gli psicofarmaci, e quella che sarà l'overdose da medicinali letali per la donna.
Poi c'è una telecamera di sorveglianza di un cantiere che riprende un crollo che fa una vittima.
Potrebbe bastare questo per far capire che Happy End è un film che parla di crolli, morte e distruzione, e che ragiona pure sull'atto del riprendere e del guardare, in un'era di crisi che riguarda tanto l'Occidente quanto il cinema.

Ma poi Michael Haneke allarga lo sguardo e sottolinea meglio, mostrando come s'incastrano quelle immagini nella vita di una ricca famiglia di Calais che è decisamente allo sbando, nonostante tutti gli sforzi di Isabelle Huppert: perché suo padre, anziano patriarca, è stanco di vivere e di quello che vede, e vuole ammazzarsi; perché l'altro suo figlio è un fedifrago seriale incapace di amare qualcuno; perché il rampollo più giovane, che dovrebbe prendere in mano l'azienda di famiglia, è un pazzoide irresponsabile. E la più piccola, la ragazzina con l'iPhone, vive nel disincanto più totale.

Va da sé che in quella famiglia lì c'è la Vecchia Europa, ci siamo noi, e che l'aver ambientato il film nella cittadina costiera francese, famosa nel mondo per la "giungla" dei tanti profughi che lì si sono ritrovati nella speranza di partire per la Gran Bretagna, non è certo un caso.
E che tutto questo vada da sé è indice un po' inquietante di quanto le riflessioni di Haneke siano scontate.

Tornato a livelli di programmaticità che non toccava da qualche film, e riciclando un sacco delle sue ossessioni, l'austriaco sembra faticare a dare spessore ai temi di Happy End, non trovando di meglio della solita rappresentazione della borghesia ipocrita e autodistruttiva per raccontare la nostra condizione, e di qualche video di YouTube per tratteggiare quella del cinema.

Poi, certo, non stiamo parlando del film di un cretino qualsiasi, e Happy End spunti affascinanti e interessanti ne offre anche: rimangono però sempre appena accennati, mai approfonditi, sulla superficie di un film bello da vedere ma che questa volta, sotto all'abituale freddezza, non nasconde calore sufficiente a smuovere pensieri e sentimenti.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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