Gli occhi di Tammy Faye, la recensione: il ritratto senza empatia di una figura grottesca e patetica
Apre la Festa del Cinema di Roma 2021 un biopic senza guizzi, che si concentra e si esaurisce nella sua protagonista e nell'interpretazione funzionale (né buona né cattiva) di Jessica Chastain, nascosta sotto trucco e parrucco ingombranti. La recensione di Federico Gironi.
In un recente articolo su Jessica Chastain pubblicato di recente sul sito statunitense Vulture, si sostiene che l'attrice "dice ogni battuta come se stesse cercando di superare un corso intensivo di recitazione, e la cosa quasi sempre si traduce in una performance che non è tanto buona o cattiva quanto 'corretta per il progetto', anche quando il film può essere più facilmente etichettato come bello o brutto."
Gli occhi di Tammy Faye è un film piuttosto bruttino, nel quale la sua protagonista - che è anche produttrice, e che ha cercato per anni e con caparbietà di realizzare il progetto - offre una di quelle interpretazioni lì. Una di quelle che non è tanto da applaudire o denigrare per qualità e intensità, quando da apprezzare per la sua totale funzionalità al personaggio e alla sua storia.
Tammy Faye Bakker. Col marito Jim, televangelisti da 20 milioni di spettatori al giorno, poi al centro di un'enorme scandalo quando è venuto fuori che lui, oltre a fare cose non proprio da pastore con altre donne, e altri uomini, sottraeva le donazioni dei suoi "partner" destinate all'edificazione di una sorta di megalomane cittadella critiana (una sorta di Milano 2 evengelica in Carolina) per accumulare ricchezze personali.
Truffatori: sicuro. Invasati: probabile. Ma Tammy Faye, forse, cattiva non era. Fragile, magari. Figlia di primo letto di una donna severa in anni (i primi Cinquanta) in cui il divorzio era ancora un marchio d'infamia, e per tutta la vita alla ricerca dell'amore di qualcosa o qualcuno, di Dio o degli uomini, personaggio ingenuo, grottesco, sopra le righe, fastidioso e pure patetico. Non nel senso buono. E però, capace di parlare dei diritti degli omosessuali in anni in cui (gli Ottanta, ma ancora nei Novanta) essere gay era ancora un marchio d'infamia, specie tra gli invasati della fede.
A partire da un documentario omonimo, Gli occhi di Tammy Faye ci racconta vita, ascesa e caduta della sua protagonista (c'è anche Jim, certo, ma non conta: anche perché Andrew Garfield non è Jessica Chastain, e nemmeno più il Garfield che ogni tanto azzeccava qualcosa), sulla quale si concentra e nella quale si esaurisce.
Tanto il film quanto l'interpretazione della protagonista sono ossessivi ma anche banalmente illustrativi nel ricreare la ridicola pacchianeria, l'assenza di senso del ridicolo, l'ipocrisia prima di tutto verso se stessi e poi verso gli altri di una donna a suo modo fragile, a suo modo fortissima. A casa portano al massimo un paio di scene dove la recitazione sopra le righe è finalmente funzione di qualcosa, o dove al contrario il silenzio comunica quel che le parole non sanno fare.
Quel che Gli occhi di Tammy Faye non riesce a fare è, oltre all'andare sotto la superficie delle cose, è rendere in qualche modo esemplare questa parabola. A far sì che il grottesco e il patetico diventino a modo loro veicolo di empatia: Tammy Faye, con quel trucco orripilante indossato dalla Chastain con sprezzo del pericolo, è imbarazzante per sé e fastidiosa per chi la guarda, noi compresi, che non ne sentiamo mai davvero l'umanità, figuriamoci l'eventuale carisma.
Non servono a molto i tentativi nemmeno troppo velati del regista Michael Showalter di fare di Gli occhi di Tammy Faye l'ennesimo film sull'America.
Anche se, certo, un film anche così sulle nostre Vanna Marchi, noi in Italia ancora non l'abbiamo fatto.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival