Gli Anni più belli: La recensione dell'appassionato film di Gabriele Muccino

31 gennaio 2020
3.5 di 5
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Gli anni più belli, il nuovo film di Gabriele Muccino è un viaggio vorticoso lungo 30 anni, alla scoperta di quello che eravamo e che siamo diventati, che non annoia mai.

Gli Anni più belli: La recensione dell'appassionato film di Gabriele Muccino

Quali sono stati gli anni più belli dei ragazzi che nei primi anni '80 si dividevano fra coloro che indossavano i jeans a zampa di elefante e gridavano gli slogan del decennio precedente e coloro che cedevano alle nuove mode, alla musica pop e a inaspettati piccoli agi? Probabilmente quegli anni là, gli anni non "di Happy Days e di Ralph Malph", ma di Edoardo Bennato con il suo "Rock di Capitano Uncino", delle giacchette jeans, dei capelli cotonati, di una certa pudicizia e di sogni che forse potevano cominciare a realizzarsi. Era l'epoca in cui anche Gabriele Muccino attraversava la tempesta dell'adolescenza ed è chiaro che il nuovo film del regista di A casa tutti bene parla del suo vissuto, a prescindere dal dichiarato omaggio a C'eravamo tanto amati di Ettore Scola, con cui non è giusto né logico fare paragoni, anche se è sempre "del grande cerchio della vita e delle sue dinamiche che si ripetono" che si parla. E tuttavia l'autobiografia qui non passa tanto attraverso le esperienze personali. Piuttosto, l'identificazione del regista nei quattro protagonisti è una questione di emozioni e ha a che vedere con quella trepidazione che coincide con la prima giovinezza, età di speranze e di grandi progetti. Poi ci sono i rimpianti e le riflessioni di chi si guarda alle spalle e si accorge che il tempo, inesorabilmente e implacabilmente, è passato, e allora in qualche modo bisogna chiedersi il perché di certi fallimenti.

Muccino ha detto di aver messo un po’ di sé in ognuno dei personaggi de Gli Anni più belli, che hanno il pregio di appartenere a un contesto popolare, e per questo crescono senza i freni e i condizionamenti borghesi che hanno incastrato in un’esistenza claustrofobica e frustrante gli uomini e le donne dei precedenti film italiani di Gabriele. Hanno altri imput, altri fantasmi e altre battaglie da combattere Giulio, Paolo, Riccardo e Gemma. Paradossalmente hanno più possibilità: di sbagliare, di realizzarsi, di affrancarsi, di dedicarsi alle cose belle, come il latino e il greco del professore di Kim Rossi Stuart, forse il migliore fra i quattro amici e il più a fuoco, per la malinconia che porta scritta negli occhi, per lo struggimento che quietamente lo consuma e per l'amore che fa soffrire per quell'unica donna conosciuta da ragazzo.

E’ soprattutto l'interiorità dei suoi protagonisti che interessa a Muccino, la tempesta che li travolge, specialmente quando sono molto giovani. Le loro passioni possono essere deflagranti e disperate e a volte troppo urlate (come nel caso di Gemma), ma comunque giustificate, nei loro scoppi, dal destino avverso che separa due innamorati o dal desiderio di non essere poveri e senza ambizioni come chi c'è stato prima.
Con la sua macchina da presa l'autore de L'ultimo bacio fotografa l'anima in continua "ebollizione" delle sue complicate creature, e ben racconta il cameratismo, i rancori, le separazioni e i riavvicinamenti. Pur cedendo di tanto in tanto al melò al cardiopalma, Gabriele non perde un colpo e si conferma maestro del ritmo narrativo. La sua storia non annoia mai, e ogni personaggio passa il testimone al successivo, nella grande corsa della vita, con una fluidità che ha dell'incredibile. Ogni scena del film è carica di tensione, e se l’andatura è precipitosa nella parte introduttiva perché precipitosa è l'adolescenza stessa, poi il mare agitato si calma un po’, i dolori diventano più acuti, la recitazione si fa più sobria e Favino, Santamaria, la Ramazzotti e Stuart riescono a regalarsi ancora di più, ciascuno a modo suo, ai quattro ragazzi con la decappottabile rossa. Il film è magnanimo e vuole bene a ognuno di loro, perfino all'avvocato di Favino che difende i potenti scellerati e si innamora del lusso.

Muccino sente il bisogno di ridare speranza a lui come agli altri, e proprio non ce la fa a negare a Paolo, Gemma, Giulio e Riccardo la possibilità di una nuova felicità. Rilancia il regista, e ha ragione: la realtà, se ci pensiamo, è già tanto brutta così com'è.
E però, nel fiume in piena che è Gli Anni più belli, il regista a volte si dimentica la Grande Storia, che fa capolino con Mani Pulite, il Primo Governo Berlusconi, l'11 settembre e "il vento del cambiamento", e sembra dimenticarsi di insistere, con la giusta profondità, sugli effetti che questa ha avuto sulle piccole storie. Si tratta forse di una svista? No, semplicemente di una scelta, condivisibile o meno. Del resto, ognuno racconta a modo suo e si lascia influenzare dall'air du temps a modo suo.



  • Giornalista specializzata in interviste
  • Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali
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