Glass Onion - Knives Out: recensione del film di Rian Johnson con Daniel Craig

21 novembre 2022
2.5 di 5

Atteso sequel di sequel del primo Knives Out, il film, whodunit postmoderno e carico d'ironia, arriva al cinema per una sola settimana dal 23 novembre, e su Netflix dal 23 dicembre. Ecco la recensione di Glass Onion - Knives Out di Federico Gironi.

Glass Onion - Knives Out: recensione del film di Rian Johnson con Daniel Craig

Ho appena rovesciato a terra, goffamente, metà del cestello di popcorn gentilmente offerto da Netflix quando, sullo schermo del cinema, appare Rian Johnson per dei saluti e delle raccomandazioni. Glass Onion - Knives Out, dice, in poche parole, è un whodunit: quindi, per favore, cercate di non spoilerarlo ai vostri lettori.
Capirete quindi, come è giusto che sia, perché in queste righe non potrò scendere troppo nel dettaglio, e dovrò rimanere sul vago in molti casi.
E però posso dire che, data la premessa di Johnson, io mi sarei aspettato qualcosa, da Glass Onion, che invece è stata tale solo per metà. Esattamente come i miei popcorn.
Perché Glass Onion è un whodunit a metà, e spacciarmelo per tale nella sua interezza non è stato forse molto carino. E anche l’intrattenimento puro, quello di cui i popcorn sono spesso sinonimo nel linguaggio che ruota attorno al cinema, è tale solo a metà: l'incidente del cestello è stato in qualche modo profetico.

La premessa di questo nuovo film della serie di Knives Out è simile a quella di Invito a cena con delitto, deliziosa parodia del giallo classico firmata da Neil Simon e impreziosita da un cast all star (guarda un po’) nel quale spiccavano Peter Sellers, David Niven, Peter Falk e Truman Capote. Perché, lì come qui, qualcuno invita qualcun altro a casa sua per indagare, più o meno giocosamente, sul suo omicidio.
In questo caso l’ospite è Miles Bron (Ed Norton), ricchissimo magnate della tecnologia che ha un’isola greca tutta sua e una villa superlussuosa e straripante di opere d’arte (“sembra la Tate Modern”, dice a un certo punto Kathryn Hahn, una degli invitati). E non a caso l’arrivo sull’isola degli invitati - tutti parte dell’inner circle del riccone tranne Benoit Blanc, che non si sa cosa ci sia finito a fare, l'ì in mezzo - ha qualcosa di bondiano, anche musicalmente. Perché la furbizia postmoderna di Johnson, una volta dato spessore autonomo al detective interpretato da Craig nel primo film, non poteva giocare con gli echi di 007 incarnati dal suo protagonista.

Comunque.
Un miliardario invita i suoi amici più cari su un’isola per indagare sul suo omicidio. È un gioco, s’intende. Ma capiamo bene, e lo capisce Blanc, che tutti e cinque questi amici avrebbero motivi per vedere davvero morto il loro ospite.
Morirà davvero Miles Bron? O a morire sarà qualcun altro? E perché? Ovviamente sarà Benoit Blanc a doverlo scoprire, e noi con lui.
Solo che, e questa è una contravvenzione grave alle regole implicite del genere, a un certo punto viene fuori che Johnson ha nascosto elementi fondamentali, fin dall’inizio. Ai personaggi del film, a tutti tranne a Blanc, che è detentore di codesti segreti, e a noi spettatori. Falsando così la detection. E dopo questa rivelazione, la scoperta dell’assassino arriva piuttosto rapidamente, nel film,e seguendo traiettorie solo in parte palesi.

Tutto questo importerebbe poco, dato che nell’universo di Knives Out quello che importa veramente, a Johnson soprattutto, è il gioco, più che la sua risoluzione. Quello che importa al regista, era chiaro nel primo film e lo è ancora di più in questo caso, è la decostruzione delle regole formali e narrative di un genere che porta poi a una nuova configurazione dominata dal colore, dal dinamismo, dall’ironia. Postmodernismo puro, dove è l’esperienza della visione, e non il racconto, ciò che conta. Questo e, come nel primo film, più che nel primo film, la satira sociale.
Che però in nel precedente Cena con delitto era più sottile, e quasi raffinata, se vogliamo, mentre qui si muove secondo coordinate prevedibili e didascaliche, prendendo di mira, più che certe derive social, pure raccontate nei personaggi di Kate Hudson e Dave Bautista, soprattutto la grandeur egomaniaca dei super ricchi contemporanei, quelli che non si capisce (o forse sì) se sono ricchi perché sono davvero dei geni, o degli idioti, ma furbi e spietati. Mettendoci in mezzo, anche, le questioni di classe - sacrosante, per carità, ma qui un po’ telefonate - che vanno tanto di moda tra i corridoi di Hollywood, forse per sciacquare via qualche macchia dalle coscienze.

Siccome queste cose, a Johnson, stanno particolarmente a cuore, ecco che il suo Glass Onion non è un whodunit, ma un film a tema, e a tesi. Il giallo è solo un pretesto: per la tesi, certo, ma anche per la voglia di disseminare il percorso non di indizi ma di citazioni, riferimenti, ammiccamenti ultrapop.
A partire dal titolo, derivazione ovviamente beatlesiana, passando per un name dropping facilone e superfluo.
Allora, fermo restando un blando divertimento di base, alla fine ci si sente un po’ come Benoit Blanc quando lamenta che si sarebbe aspettato una sfida complessa, all’altezza del suo genio investigativo, quando tutto invece, era sempre ovvio e, soprattutto, in bella vista.
Tutto ovvio e in bella vista è anche per noi spettatori. Perché non importa quanti strati abbia voluto mettere Johnson attorno a cuore del suo film: sono tutti trasparenti.
Una cipolla di vetro, appunto. Che non farà piangere, che ha la sua attrattiva superficiale, ma che, alla fine dei conti, è solo poco più che decorativa.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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