Giurato Numero 2: la recensione del film di Clint Eastwood

12 novembre 2024
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Giunto a quello che potrebbe essere il suo ultimo film, il 94enne Eastwood mette sullo schermo un cinema limpido e cristallino popolato dalle posizioni opache, contorte e ambigue dei suoi protagonisti. E si parla di giustizia e verità, etica e morale, politica e umanità. La recensione di Giurato Numero 2 di Federico Gironi.

Giurato Numero 2: la recensione del film di Clint Eastwood

Proprio pochi giorni fa stavo facendo vedere a Figlia numero 2 il mio film giudiziario preferito, che è Codice d’onore. Era la prima volta che vedeva un film ambientato in un'aula di tribunale e ho dovuto spiegarle un po’ di cose, tra le quali la presenza e il funzionamento di una giuria. Che per noi, in effetti, è sempre una cosa un po’ strana. Dodici persone comuni, normali, tali e quali a te, che sulla base di quello che viene detto in aula da accusa, difesa e testimoni devono decidere della sorte di un altro, tale e quale a te.
A un certo punto, nel nuovo film di Clint Eastwood, che con curiosa assonanza con mia figlia si chiama Giurato numero 2, ci sono Toni Collette e Chris Messina, ovvero l’accusa e la difesa del processo in questione, che di fronte al bancone di un gran bel bar e a due bicchierini di bourbon, dicono una cosa tipo: “questo che abbiamo non sarà il sistema giudiziario migliore del mondo, ma è il nostro e dobbiamo tutelarlo”.
Il che da un lato sarà vero, e dall’altro no: nel senso che quel che fa Eastwood in questo film è (anche) riflettere - più dal punto di vista della pratica, che non del sistema - sul fatto che dodici persone tali e quali a te, nel bene e nel male, fallibili e meno fallibili, complesse, umane, debbano decidere della sorte di uno tale e quale a te, complesso, umano, sulla base di quel che altre persone tali e quali a te, complesse, umane, fallibili, dicono per accusarlo o per difenderlo. Perché quel che fa Eastwood in questo film è (anche) mettere il dito nella piaga della giustizia proprio perché quella giustizia lì è comunque la sua, e lui vuole tutelarla.
E la cosa straordinaria, una delle tante, a dire il vero, è vedere come, nella complessità del discorso, Eastwood riesca a parlare senza mai perdere l’equilibrio, o di risultare predicatorio, o inficiare la dimensione da thriller del film, di sistema giudiziario tanto quanto di verità, etica e morale; di politica come di umanità.

Anche la trama di Giurato Numero 2 è semplice e complessa, lineare e articolata, al tempo stesso. Protagonista è Justin (un Nicholas Hoult sempre più una versione allampanata del giovane Tom Cruise), marito esemplare e giornalista su una rivista locale - siamo a Savannah, in Georgia - che sta per avere un figlio dalla moglie. Manca poco al parto, e la situazione è delicata perché in passato ci sono state gravidanze non portate a termine, e Justin, che vorrebbe stare a casa con lei, viene chiamato a fare il giurato nel processo a un suo coetaneo accusato di aver ucciso la sua ragazza dopo una lite. Il problema vero, però, è che, a processo iniziato, Justin capisce che con quel caso ha a che fare più di quanto non voglia e sia lecito, e in lui nasce un dilemma morale complesso e lacerante, che lo porterà a decidere se agire come membro della giuria secondo traiettorie di interesse personale o di aderenza alle idee di giustizia e verità (che peraltro non sempre sembrano essere esattamente la stessa cosa).
Al dilemma morale di Justin inizia poi, da un certo punto in avanti, a associarsi quello del pubblico ministero di Toni Collette, che da ferma accusatrice dell’imputato - anche perché vincere quel processo per lei è tassello fondamentale per farsi eleggere procuratore distrettuale - inizia a dubitare delle sue stesse convinzioni, e a intravedere altre verità.
Il punto, però, è che non sono questi due personaggi - destinati a incontrarsi e confrontarsi verbalmente nella parte conclusiva del film, e ai quali è affidato un finale che non poteva che essere aperto a ogni interpretazione - a mostrare complessità etiche, e soprattutto ad avere comportamenti che sono guidati da una miscela letale nella quale l’interesse personale viene mascherato e si intreccia con le le convinzioni professionali o morali.
Il punto è, per dirla in maniera semplice, in Giurato numero 2 il più pulito c’ha la rogna, quella stessa rogna che più o meno tutti noi abbiamo addosso: nel senso che - con la notevole eccezione di chi è (già) colpevole - non esiste un personaggio che, in una qualche misura, non subordini ciò che è giusto a ciò che conviene.
Lo fa Justin, sicuramente, ma lo farà anche la sua innocentissima moglie (e così facendo, Eastwood mette nel suo mirino anche l’istituzione famiglia); lo fa la giurata che vuole decidere in fretta, sia quel che sia, perché deve tornare a casa dai figli così come lo fa lo sponsor degli Alcolisti Anonimi di Justin. E se l’accusato del processo è magari innocente, di certo di colpe da espiare ne ha a vagoni.

Novantaquattrenne di straordinaria lucidità, Clint Eastwood mette sullo schermo un cinema tanto più limpido e cristallino, tanto più diretto e evidente, quanto più opache, contorte e ambigue sono le posizioni di tutti i personaggi che popolano le inquadrature. Quindi vedere, e quindi comprendere, e quindi arrivare il più possibile vicino a quella che è una verità oggettiva e esistente, è un compito arduo.
La giustizia è bendata, ma bendati - come Eastwood ci racconta fin dalla primissima immagine del film - siamo un po’ tutti: da noi stessi, da qualcun altro, da qualche convenienza. Perché voltare lo sguardo (che è poi il peccato originale del personaggio di Justin), scegliere di non vedere, è la cosa più facile. E quindi la più sbagliata.
Una riflessione sullo sguardo e sul vedere di modernità assoluta nel contesto di una struttura formale che più classica non si può: un’altra delle cose straordinarie di questo film che è anche di rovente attualità politica nel suo testardo rivendicare l’urgenza morale dell’inseguimento della verità. Perché troppo e troppo a lungo si è subordinata la verità a una giustizia che è sempre personale, soggettiva, figlia di un qualche interesse, magari pure collettivo. Magari pure, paradossalmente, sano e condivisibile.
E se tutto questo, tutto quello di cui si è parlato finora, Eastwood lo fa senza sbagliare un colpo, un’inquadratura, uno stacco di montaggio, un personaggio secondario, un dettaglio narrativo, senza mai perdere di vista un’altra urgenza, che è quella della suspense e dell’intrattenimento dello spettatore, beh: non so davvero cos’altro si possa chiedere a lui, a questo suo forse ultimo film, e al cinema tutto.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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