Fuocoammare, recensione del documentario di Gianfranco Rosi vincitore del Festival diBerlino

13 febbraio 2016
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Un racconto importante sull'emergenza rifugiati, e sul luogo di confine che li accoglie, l'isola di Lampedusa

Fuocoammare, recensione del documentario di Gianfranco Rosi vincitore del Festival diBerlino

Raccontare quella che, probabilmente, è la più grande emergenza e la più grande sfida che l'Occidente europeo deve affrontare - l'emergenza dei rifugiati e dei profughi che ogni giorno sfidano il mare per sbarcare sulle coste della Grecia, della Spagna e soprattutto dell'Italia, alla ricerca di una vita (non migliore, proprio di una vita) - è qualcosa di certamente complesso, arduo, scivoloso. La retorica, il sensazionalismo, la banalizzazione sono sabbie mobili che non tutti sono in grado di evitare. Gianfranco Rosi lo è stato.
Perché Fuocoammare racconta non solo la tragedia umanitaria, i morti in mare o nelle stive, la disperazione di approda senza altro possedimento se non quello di ciò che indossa, o degli affetti che è riuscito a portare con sé, ma (anche e soprattutto) racconta nella sua complessità quel luogo che degli sbarchi e di un incontro difficile e disperato è un simbolo fatto di terra, rocce, mare e scogli. L'isola di Lampedusa.

Luogo remoto, governato ancora da modi e tempi che la frenesia dell'Occidente del Terzo Millennio ha schiacciato e spianato, terra aspra e per questo amatissima, Lampedusa è una sorta di limbo per quanti vi sbarcano, per coloro che vengono accolti, curati, salvati. Un purgatorio che separa l'inferno da cui provengono e il paradiso ipotetico al quale aspirano. Un'oasi, un cuscinetto tra un tempo arcaico e violento e un mondo occidentale che è ancora lontano, e che non è pronto all'arrivo di chi vorrebbe entrarvi.
Fuocoammare è allora tanto fatto delle navi, dei radar, degli sbarchi, dei salvataggi, quanto dai pescatori, dalle donne anziane che cucinano e rassettano i letti, di un ragazzino di 12 anni, Samuele, che vive la sua vita quasi ignaro del pezzo di Storia che gli sta passando accanto.

Due mondi, quelli di Fuocoammare. Due mondi che s'incontrano a Lampedusa, che s'incontrano quando Samuele viene visitato dall'altro protagonista italiano del film, il dottor Pietro Bartolo, medico dell'isola e primo testimone della morte e del dolore che arrivano coi barconi. A lui sono affidate due delle scene più potenti di un film complesso e variegato, astratto e concretissimo, dalla grande eleganza fotografica, e che si costruisce con lentezza, nel tempo, con la pazienza necessaria a trovare la giusta distanza necessaria a raccontare le cose più dure.
Più ancora dei volti carichi di fatica, o degli sguardi pieni di paura e di speranza, più ancora di alcune oggettivissime immagini di morte (cui si arriva solo nel finale, perché ineludibile approdo e testimonanza), sono le parole e i toni di questo medico a toccare nel profondo.
Due volte: la prima quando visita con enorme compassione una donna incinta di due gemelli, e cerca di spiegarle - tra le mille difficoltà dell'incomprensione linguistica - quello che l'ecografia sta rivelandole; la seconda quando confessa di essere perseguitato e ossessionato dai morti che è stato costretto a vedere. La vita e la morte, che passano senza tregua e senza pietà nella vita e negli occhi di una persona condannata a farsi carico di tutto quello che noi possiamo lasciare sepolto sotto le cronache dei media, a distanza di sicurezza, reso impersonale, quasi alieno.

Quello che, invece, Fuocoammare ci costringe invece a vedere e a considerare, in maniera tanto più forte ed efficace quanto inesorabilmente progressiva, e sempre mescolata a una realtà comune, semplice, di confine, che è comunque la nostra.
Che è quella di Samuele, 12enne ipocondriaco e con l'ansia, che spara contro chissà chi o chissà cosa, che vive sulla sua pelle il clima di attesa, accoglienza e tensione di Lampedusa. Che deve farsi lo stomaco  al mare e a quello che porta, e imparare a vedere la realtà con gli occhi nuovi. Vederla, abbandonando la pigrizia degli occhi suoi, che sono i nostri.
Che sono quelli piantati nell'obbiettivo di Rosi di uomini e donne smarriti e spaventati, quelli del dottor Bartolo carichi di compassione, quando dice “ha sofferto, questa cristiana”, parlando della sua paziente incinta, e carichi di dolore, affaticati, al ricordo dei troppi cadaveri sui quali è stato costretto a mettere le mani e lo sguardo.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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