Frankie: recensione del film con Isabelle Huppert in concorso al Festival di Cannes 2019
Un film piccolo e delicato, fin troppo esile, sull'amore e la morte, e quindi sulla vita.
Frankie è Isabelle Huppert. Interpretata da, certo, ma è proprio come fosse lei davvero: attrice famosa e idolatrata, altera, dal carattere schietto e spiccio, alla quale è difficile che qualcuno sappia dire di no, come dice suo marito Brendan Gleeson.
Frankie è malata. Tumore, terminale, pochi mesi di vita. E allora convoca una riunione di famiglia in uno scenario da favola: Sintra, in Portogallo, che Ira Sachs restituisce in tutta la sua bellezza, maestosa eppure quasi schiva.
Non è chiaro cosa voglia ottenere la protagonista da questa riunione: se solo avere vicine le persone care della sua vita tutte assieme; fare un annuncio di qualche tipo; gettarsi da un dirupo di fronte a loro o solo condurli lassù, a picco sull’Oceano, per ammirare un tramonto che è quello della sua vita. Di certo vuole far incontrare il figlio avuto dal primo marito, ora gay, con la sua migliore amica, parucchiera sui set: ma questo suo piano avrà esiti da lei non previsti.
Come in fondo gran parte delle storie che noi esseri umani ci raccontiamo dalla notte dei tempi, come forse proprio tutte le storie, anche quella di Frankie parla dell’amore e della morte, e quindi della vita.
Il primo dialogo che Sachs sceglie di farci ascoltare parla dell’amore perfetto e longevo tra il personaggio della Huppert e quello di Gleeson, destinato a spezzarsi in maniera così drammatica, e a pronunciarlo è il marito della figlia di primo letto dell’attore irlandese, che a sua volta sembra essere sull’orlo di una separazione. Il figlio della Huppert, invece, dell’amore va in cerca da una vita, e la nipote flirta sulla spiaggia con un ragazzino del posto.
L’amore, sembra dire Sachs, non è mai davvero come e dove ce lo aspettiamo, o lo programmiamo. E lo stesso - ahinoi - vale per la morte.
Luoghi comuni? Certamente. Che però il regista americano, con una scrittura leggerissima e una regia silenziosa e scorrevole, riporta alla loro origine, cioè a quelle piccole verità, banali ma anche essenziali, di cui è fatta la vita. Quella dei suoi personaggi, e quella di tutti noi.
Delicato tanto da diventare quasi esile, e fragile, Frankie non è ai livelli dei film precedenti del suo autore, da Love is Strange a Little Man, e forse è troppo piccolo e semplice per il concorso di un Festival come quello di Cannes, ma c’è comunque da sperare possa arrivare presto nelle nostre sale. Il suo essere così ovatatto, la sua calma quasi innaturale, il ritmo disteso del suo racconto, sono una piccola oasi sensoriale che permette di rifiatare e rimettere un po' in sesto le priorità della vita.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival