Fly Me to the Moon - Le due facce della Luna: recensione del film con Channing Tatum e Scarlett Johansson

09 luglio 2024
2.5 di 5

Tre film al prezzo di uno, ma anche al costo di un po' di confusione e di incertezza. Si parla di amore, conquista dello spazio e soprattutto di verità, ma non è che Berlanti appaia proprio sincero. La recensione di Fly Me to the Moon di Federico Gironi.

Fly Me to the Moon - Le due facce della Luna: recensione del film con Channing Tatum e Scarlett Johansson

Dentro a Fly Me to the Moon ci sono almeno tre film. C’è una commedia romantica che, complice forse l’ambientazione anni Sessanta, e il simbolico femminismo della sua protagonista, può ricordare certi toni di Abbasso l’amore. C’è un dramma che racconta dell’avventura spaziale dell’Apollo 11. E c’è una riflessione metacinematografica sul video dell’allunaggio, che i complottisti vorrebbero essere stato girato in studio da Stanley Kubrick.
L’ordine in cui ho elencato queste tre identità non è casuale: in un certo senso segue, non pedissequamente, la cronologia del film, ma soprattutto è un ordine in base al livello di interesse, dal minore al maggiore.

Kelly Jones (Scarlett Johansson) è una maga della comunicazione di Madison Avenue, una Don Draper al femminile: forse (o quindi?) anche un po’ una truffatrice. Fatto sta che il governo bussa alla sua porta sotto le sembianze di Moe Berkus (Woody Harrelson, meraviglioso come sempre), agente misterioso, ambiguo e onnipotente di chissà quale organizzazione segreta: la NASA è in crisi d’immagine, serve rilanciarla, per andare sulla Luna servono soldi. E sponsor. Lei, lei Kate:, è l’unica che può riuscire a trovarli.
E così Kate arriva a Cape Canaveral, dove a comandare è Cole Davis (Channing Tatum), ex asso della cloche nei cieli di Corea, astronauta mancato, responsabile delle missioni spaziali: pure di quella, tragica, dell’Apollo 1, che lo ha segnato nel profondo.
I due non potrebbero essere più diversi: lei tutta forma e zero sostanza, lui il contrario. Soprattutto, due punti di vista antipodici su quello che sia e debba essere la verità. Non potranno fare altro che innamorarsi (anche perché sono due facce dello stesso Capitale), e a noi, guardando il film, interessa davvero pochissimo dell’esito della loro storia.

Va un po’ meglio, Fly Me to the Moon, quando deve raccontare l’ansia - un po’ di tutti, alla fine dei conti pure quella di Kelly - per la preparazione e il successo della missione cruciale, quella dell’Apollo 11, quella che dovrà portare l’uomo (l’uomo americano, soprattutto) sulla Luna per la prima volta.
E va ancora meglio quando si apre il capitolo relativo al finto filmato dell’allunaggio.
Perché, dice il personaggio di Harrelson, mica si può rischiare di mandare in diretta televisiva un fallimento, il fallimento americano: e quindi in gran segreto, in un hangar isolato, va costruito un set e ripreso un falso allunaggio. Solo una come Kelly può organizzare la cosa: alla regia ci sarà un regista supergay di spot pubblicitari, non a caso invidioso del successo di “Stanley”, lei sarà produttrice.

Greg Berlanti, alla regia, non è di certo un Kubrick; Rose Gilroy, che ha scritto, non è esattamente Aaron Sorkin o Matthew Weiner. Come conseguenza dei questi valori in campo, e delle sue tre anime, Fly Me to the Moon è un film un po’ ondivago, incerto, fuori fuoco. Non si capisce mai bene cosa ci voglia davvero raccontare, dove desideri si concentri la nostra attenzione. Un tripudio di finali e sotto finali come non si vedeva dalla chiusura della trilogia tolkeniana di Peter Jackson non aiuta in questo senso.
Berlanti ha l’ambizione di tenere tutto assieme, di portare in braccio tutte le anime e le identità del suo film, ma l’impressione è che gli cada sempre qualcosa di mano lungo il percorso. Johansson e Tatum appaiono tutti e due poco convinti, ma per fortuna che c’è il gigante Harrelson, che beve scotch e limone in un ruolo tagliato su misura per lui, e ogni tanto anche Ray Romano interviene a sostenere la baracca.

Alla fine della fiera, Fly to the Moon è un film sulla verità, o post-tale. La tensione ideale tra la mancanza di scrupoli tra la maga del marketing e delle PR di Kelly e la rigida interpretazione dell’onestà di Cole dovranno trovare una sintesi efficace e funzionale per entrambi (sul piano sentimentale e professionale) e anche per tutti noi (e per la società americana che incarnano). Il finto allunaggio sta lì a fare da metafora, e pure a prendere in giro (non senza ambiguità) certi complottismi social tutti contemporanei. Ma il paradosso, tutto sommato, è che di verità - o meglio, di sincerità, in questo film se ne respira assai poca.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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