Eo, la recensione del film di Jerzy Skolimowski in concorso al Festival di Cannes 2022
Storia di un asino, quello del regista polacco è una sorta di liberissimo è un po' scriteriato rifacimento di Au hasard Balthazar di Bresson, con però uno stile formale tutto avanguardismi e stimolazioni sensoriali. Bah.
Il film si intitola Eo. Si legge "i-o". Anzi, "ih-oh", come il verso che fa l'asino. Come il personaggio di Winnie the Pooh.
Perché, anche qui, anche in questo film di Jerzy Skolimowski presentato in concorso al Festival di Cannes 2022, Eo è un asino. Ed è il protagonista della storia.
Uno dice asino al cinema, e la memoria non può far altro che andare al Balthazar dell'indiscusso e indiscutibile capolavoro di Robert Bresson, e a ben vedere Eo, di Au hasard Balthasar, può quasi essere considerato un liberissimo e un po' sconsiderato remake. Filtrato, tra le altre cose, oltre che da certo sperimentalismo contemporaneo, dall'esperienza di Bella e perduta di Pietro Marcello: sì, lì c'era un bufalo e non un asino, ma in fondo è la stessa cosa.
All'inizio del film, Eo lavora in un circo. È il protagonista di un numero assieme a una ragazza che gli vuole molto bene. Poi però il circo viene chiuso, perché gli animali devono essere liberati, e Eo viene allontanato dalla sua amica e padrona, e spedito a fare da animale da tiro in un maneggio. È il primo passo di una piccola ma intensa Odissea equina che porterà quest'asinello in una fattoria, e poi a fuggire noi boschi, a diventare la mascotte di una squadra di calcio, a essere picchiato quasi a morte, e poi di nuovo a diventare animale da tiro, e poi su un camion pieno di cavalli, e poi ancora libero, fino a un epilogo che ha il suono secco e ovattato assieme della pistola a stantuffo con cui si abbattono i bovini.
Il discorso di Skolimowski, qui, è molto chiaro. Pure troppo.
Eo, inquadrato come Bathazar, come il Sarchiapone di Marcello, e in molti altri modi, simboleggia l'innocenza del mondo animale che attraversa un mondo umano fatto di pochissima bontà e innumerevoli aberrazioni, alle quali assiste con pazienza e remissività, salvo intervenire a modo suo quando l'uomo è troppo rapace nei confronti dei suoi simili, e quando può. Non è una novità.
È, d'altronde, lo stesso discorso di Bresson. E forse pure di Marcello. Certo però che, come lo fa Skolimowski, e nel qui e ora in cui lo fa Skolimowski, risulta un po' troppo esile e banale, come discorso.
E allora è nella forma che il regista polacco cerca di rilanciare, lavorando a tratti quasi in modo visionario e “avanguardistico”, esasperando le tensioni sensoriali con le immagini, le luci, i suoni, facendo balenare a tratti ricordi di quel film strano e bello che era stato Bestiaire del canadese Denis Côté, visto alla Berlinale una decina di anni fa, ma anche di tanta facile estetica da videoclip.
Che questo basti, però, a valere l'esperienza, è cosa tutta da dimostrare.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival