Elvis: la recensione del biopic musicale di Baz Luhrmann presentato al Festival di Cannes 2022
Presentato in prima mondiale al Festival di Cannes 2022, l'atteso film biografico Elvis di Baz Luhrmann ambisce a diventare il racconto definitivo su un'icona del XX secolo. La recensione di Mauro Donzelli.
Un personaggio difficile da affrontare, tanto è iconica la sua immagine ed esposta mediatamente ogni tappa della sua vita personale e artistica. Elvis Presley è stato molte cose insieme, diventando una delle rare figure immortali della cultura pop americana e mondiale del secondo Novecento. È stato il ritratto della fisicità e della bellezza, ha raggiunto vette di successo ineguagliate e precipitato nella dipendenza e la depressione. È morto troppo giovane, a 42 anni, come la più grande delle star. Uomo di spettacolo totale, dallo show dal vivo alla musica, dal cinema alla televisione.
Il titolo del biopic che Baz Luhrmann gli ha regalato, nel ritorno al cinema musicalea a vent’anni da Moulin Rouge, è Elvis. Ma sarebbe stato più aderente alla realtà optare per un Elvis Vs Parker, come il colonnello interpretato da Tom Hanks, storico scopritore dell’artista e suo impresario discusso e discutibile. In Moulin Rouge il regista australiano ha dato il suo meglio, potendosi muovere in libertà lungo un immaginario proiettato in maniera fantasmatica, alternando la sublimazione amorosa con una partitura musicale rivoluzionaria. Qui sembra imbrigliato dalla struttura per forza di cose rigida del biopic. Ancora di più scegliendo di non risparmiarsi praticamente nessuna tappa della vita professionale di Elvis, diluendo ma anche annacquando la portata universale del racconto, non riuscendo ad entrare in profondità, specie dovendo dividere la scena con il colonnello Parker.
Il cuore del film, infatti, risulta per buona parte della sua durata soprattutto il rapporto fra i due, raccontato in oltre vent’anni. Viene declinato a tratti come il perverso sfruttamento legato a un patto faustiano - ti ho scoperto e creato e ora devi accettare la mia patria potestà, anche se prevede l’annullamento totale del tuo libero arbitrio - e ogni tanto come la figura paterna indispensabile alla sua seconda vita, quella artistica. Elvis non si risparmia la tradizionale salita alle stelle e discesa agli inferi dell’artista, con una certa predilezione per i momenti di caduta, allargando lo sguardo anche alla moglie Priscilla e alla figlia Lisa Marie.
La dinamica più interessante è quella che si instaura quando a emergere, fra i tanti Elvis Presley, reali o proiettati dalla sua iconicità, è quello di Las Vegas. Un Paese di Bengodi in cui rifugiarsi in almeno due fasi della sua vita, durante le crisi di un artista fragile e voglioso di ribellarsi all’immagine anestetizzata veicolata dal suo “carceriere” Parker. La città del peccato è una prigione di lusso in cui produrre denaro in quantità riproponendo ogni sera per mesi e anni lo stesso spettacolo, in un tour immobile e come tale negazione dell’artista on the road. Una bolla in cui varie volte altri musicisti si sono poi rifugiati, in una fase di successo calante o della maturità. Basti pensare a Celine Dion, come raccontato in un altro biopic, Aline di Valérie Lemercier, più libero e anarchico.
Una ricetta da dosare con attenzione, quella del “marchio” Elvis. Una parte di blues, una di country e una bella spruzzata in divenire di gospel. Luhrmann usa gli ingredienti con generosità, ma risulta trattenuto e forse in soggezione nei confronti di un mostro sacro di tale portata, perdendo l’occasione di inserirlo, se non con citazioni sospese in aria, nella realtà sociale americana di quegli anni. Caro Baz, avremmo sperato in qualche movimento di bacino più deciso, in un Elvis the Pelvis senza freni inibitori, ma ce lo gustiamo anche in versione natalizia. “Elvis will never leave the building”.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito