Doppio amore: recensione del film di François Ozon in concorso al Festival di Cannes 2017

26 maggio 2017
2.5 di 5
6

Il francese vuole fare il De Palma fuori tempo massimo, rimanendo allo stesso tempo sé stesso.

Doppio amore: recensione del film di François Ozon in concorso al Festival di Cannes 2017

Ebbene sì, è vero.
Dopo aver mostrato il taglio di capelli della sua protagonista - che è Marine Vacth, quella già conturbante di Giovane e bella, qui ancora più erotizzata -, L'amant double si apre con una ripresa dell'interno della sua vagina (sua, o più probabilmente di qualche body double), attraverso uno speculum che pian piano si ritrae, fino a fuoriuscire.
Taglio di montaggio, e via: Ozon mostra il primissimo piano di un'occhio della protagonista ripreso in verticale. Capita l'analogia? Che il sesso è nello sguardo?

Del nuovo film del francese si parlerà moltissimo già solo per questa scena, e non è giusto. Sottolinearla serve però a dare il senso del tono e della maniera un po' furbetta - troppo furbetta - adottati per raccontare, a partire da un racconto di Joyce Carol Oates, una storia alla De Palma senza essere De Palma, ma anzi ricordando a ogni inquadratura di essere François Ozon.
Perché sì, la trama del film è di sicuramente depalmiana, ma dentro L'amant double ci sono tanti dei temi cari al suo regista: il desiderio, il sesso, la frigidità, ma anche il gioco tra realtà e fantasia, e le rappresentazioni mentali e non dei propri mondi interiori.

Però, prima di ogni cosa, prima dei temi e prima della forma elegante e patinata, quasi da pubblicità di un profumo, L'amant double è un thriller erotico e psicologico - anzi, psicanalitico - e come tale va considerato.
Un thriller che, nel 2017, tenta di dire qualcosa di nuovo su un tema antico come quello del doppio, e che non riesce a fare altro che buttarla sul sesso - girato anche benino, eh, ma sai che novità - e sull'ambiguità.
Lasciamo stare che dopo una decina di minuti è già chiarissimo quello che Ozon presenta come il grande ribaltamento che svela il mistero del suo film: il fatto è che se punti fortissimo sull'inganno, sull'ambiguità tra sequenze reali e sequenze oniriche, allora puoi permetterti un po' di tutto, di puoi permettere troppo, e hai vita facile e non troppo rispetto per lo spettatore.
E se si può riconoscere al regista di aver voluto osare, di aver spinto i toni del suo film fino a toccare il camp, a volte anche questo giochino intellettuale finisce con l'andare fuori controllo.

Senza raccontare troppo della trama e delle sue sorprese (reali o supposte), L'amant double parla di gemelli in senso reale e metaforico, nel tentativo di raccontare le ambiguità della natura umana, i caratteri aggressivi e quelli remissimi nascosti dentro ognuno di noi, come dentro di noi son nascosti desideri e pulsioni che non sempre abbiamo il coraggio di ammettere a noi stessi.
Quello che abbiamo dentro, insomma, se non viene tirato fuori finirà col farci del male.

Non è un punto d'arrivo così sconvolgente, e non bastano i mille rimandi psicanalitici, l'ovvia e sfacciata insistenza dei riflessi specchi, vetri e altre superfici, né la bellezza deflagrante di Marine Vacth, a perdonare a L'amant double i suoi eccessi, la sua faciloneria, e un'eleganza formale innegabile un po' vacua e fine a sé stessa.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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