Dogman: la recensione del film di Matteo Garrone presentato in concorso al Festival di Cannes 2018
Potente e disturbante, non cade nella trappola della truculenza per raccontare qualcosa di ancora più spaventoso.
Cosa gli vuoi dire, a un film come Dogman?
A un film che ha tutto quello che serve e tutto al punto giusto, che ha la storia, che non si lascia fagocitare dai fatti realmente accaduti cui è liberamente ispirato, che non cade nella trappola della truculenza delle sevizie. Perché le vere sevizie, e la vera violenza, stanno altrove.
A un film che Garrone gira (come al solito) molto bene, e che fa fotografare ancora meglio al danese Nicolai Brüel, e che popola di facce che sono tutte quelle giuste, giustissime, le facce di attori perfetti per la loro parte. Mica solo Marcello Fonte che fa Marcello, o Edoardo Pesce che fa Simoncino (e che forse è il più bravo di tutti), o Adamo Dionisi, Francesco Acquaroli, Gianluca Gobbi, o la giovanissima Alida Calabria che fa la figlia di Marcello: no, anche tutti gli altri, quelli che vedi per un secondo, al ristorante, o in carcere, o in strada.
Cosa gli vuoi dire, a un film come Dogman?
A un film che azzecca tutto anche nella scenografia e nella scelta delle location, che trova a Castel Volturno il panorama e le costruzioni giuste per ricreare quella terra di nessuno alla periferia estrema di Roma, quella specie di Ostia da incubo che però Ostia non è, che è degradata, isolata, perduta, abbandonata.
Cosa gli vuoi dire, allora, a un film come Dogman?
L’unica cosa che puoi dirgli, che riesci a dirgli quando, accese di nuovo le luci del cinema, uscito dalla sala, ricominci lentamente e con difficoltà a respirare, dopo quei 102 minuti di tensione, di paura, di ansia, di disagio epidermico, di apnea emotiva, l’unica cosa che puoi dirgli è: “cazzo, però, che botta”.
Che sofferenza quella visione. Che voglia di scappare dalla sala, da quello schermo che mostra cose così brutte in maniera così bella, mentre stai con le unghie nei braccioli e non riesci a muoverti.
Perché ti azzanna, Dogman. Ti azzanna, ti fa soffrire, ti lacera il cuore, e non ti lascia andare.
Le sue zanne, la morsa potente della sua mandibola, sono quel mostrare l’abisso sconvolgente, nero come la pece, come la notte dell’anima e dell’umanità, di un mondo brutto, cattivo, violento, egoista, squallido. Dove non esiste più una regola (nemmeno quella dell’amicizia, figuriamoci quella della compassione), dove perfino la legge è una cosa brutta, e la mamma magari è sempre la mamma, ma la si abbraccia per tenerla ferma, non per amore. Dove chi è più forte, più cattivo, più pazzo, fa quello che vuole e nessuno può fare nulla, se non diventare (cercare di diventare) ancora più cattivo, e pazzo, ma tanto poi è tutto inutile, perché la solitudine, quella lì, ti rimane addosso, come le tue colpe.
L’unica cosa che puoi dirgli, a Dogman, è “perché?”.
Perché, perché nemmeno uno spiraglio di luce, un barlume di speranza? Nemmeno Alida, nemmeno lei, che pure regala parentesi di dolcezza e di pace, è destinata a durare per Marcello, e per noi, Garrone lo fa capire chiaramente.
Perché tutto così inevitabilmente brutto? Quelle brutte architetture tutte cemento e lamiere, quelle brutte insegne, quelle brutte vie, quelle brutte amicizie con brutte persone che fanno brutte cose, o che le vorrebbero fare. Quelle brutte giostre, quel brutto negozio, quelle brutte vite dalle quali non esiste una via di uscita.
Perfino il mare. Garrone, perfino il mare riesce a essere brutto, o meno bello di quello che è, nel tuo film.
Cosa gli vuoi dire, allora, a un film come Dogman?
Perché tanto le risposte ce le hai già mentre il film di azzanna e tu, al cinema, vorresti urlare, scappare, chiudere gli occhi di fronte a tutto quell’orrore, quella violenza, quell’assenza di speranza, mentre lui - loro: il film, Garrone - invece ti trascina sempre più nel fondo del vicolo cieco che ha costruito, buio e sporco e spaventoso, tanto che tu temi di non poterne più uscire.
Allora, quando poi invece esci, e torni a respirare, e ad accorgerti (illuderti, forse) che il mondo non è così, non è solo così, che c’è altro, c’è speranza, c’è il bello, ma senti tutto quello sporco e quel dolore ancora addosso, smetti di chiedere a Garrone “perché?”.
E ti accorgi che ha vinto lui. Perché lui ha fatto quello che voleva fare, farti stare male. E tu ci sei stato, fino alla fine.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival