Disco Boy: recensione del film di Giacomo Abbruzzese in concorso al Festival di Berlino 2023
Il regista italiano esordisce nel lungo di finzione con un'opera ambiziosa che dimostra il suo talento visivo, ma che appare troppo derivativa rispetto ai tanti (e spesso opposti) modelli che ne hanno evidentemente ispirato il gusto e il senso del cinema. Recensione di Federico Gironi.
Raccontare di un bielorusso che entra, via Polonia, illegalmente in Francia, e che lì si iscrive alla Legione Straniera per poi ottenere la cittadinanza, è, qui, un modo per raccontare l’immigrazione.
E raccontare invece di ribelli nigeriani che si oppongono alle industrie petrolifere (francesi) che stanno devastando il delta del Niger, è, qui, un modo per raccontare il colonialismo.
Il qui in questione è in Disco Boy, film che intreccia queste due storie per raccontare quelle che sono, evidentemente, due facce della stessa medaglia, le facce dei personaggi interpretati da Franz Rogowski e dall’esordiente Morr Ndiaye, e dall’artista Laëtitia Ky.
Perché il legionario finirà in Nigeria, dove si confronterà direttamente col giovane leader della ribellione, e poi, tornato a Parigi, col suo fantasma, e con quello di sua sorella.
Quello di Giacomo Abbruzzese, al suo esordio nel lungo di finzione, è un film lungamente programmato, fortemente pensato, e questo pensiero così intenso e reiterato si è tradotto in qualcosa di fortemente concettuale, dove a dominare sono le immagini, le suggestioni, le ellissi e i rimandi incrociati che costruiscono una storia al tempo stesso lineare e astratta.
Lineare perché l’incontro e lo scontro del legionario con una realtà così diversa, ma anche così uguale, a lui si tradurrà in un rifiuto di quel che inizialmente pensava di desiderare. Astratta perché Disco Boy è un film che lavora in maniera quasi ossessiva su una realtà cinematografica fatta di sogno, allucinazione, iperrealismo e sperimentazione visiva.
Non sono solo la guerra, o la giungla, o soprattutto i fiumi, a creare rimandi ideali con gli universi conradiani riletti da Coppola. E nel suo lavoro sul suono, sulla musica (qui la colonna sonora è di Vitalic) e sull’immagine, Abbruzzese sembra quasi voler guardare a un Refn quanto più possibilmente depurato dal gusto per il neon esagerato e da quello per il pop.
Pop Abbruzzese non lo è di sicuro, perché la sua ideologia cinematografica di partenza è di sicuro molto autoriale e radicale. E la partenza di Disco Boy, quasi naturalista prima di un primo, fatale incontro con l’acqua di un fiume, è decisamente legata al naturalismo festivaliero dei nostri anni.
Cos’è allora che non funziona, che stona, in questo ambizioso, forse troppo, tentativo di sposare, anzi di fondere, due visioni cinematografiche quasi opposte, così come opposti sembrano i mondi raccontati da Disco Boy?
Il talento visivo del regista, tecnicamente parlando, c’è. Quel che manca è l’efficacia a lungo termine, la capacità di rompere lo specchio della superficie e spingersi in profondità; e se manca è perché tutto, in Disco Boy, sembra sempre qualcos’altro: un rimando, una citazione, una declinazione non metabolizzata di immagini preesistenti. Comprese le visioni "termiche" alla Predator, o una trama che, nel complesso e in certi specifici, ricalca assai da vicino quella di Beau Travail di Claire Denis.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival