Dead Man Down - la recensione del film con Colin Farrell e Noomi Rapace
Un film costruito in maniera quasi implacabile su contrasti e contrapposizioni, e che tenta di declinare il revenge-movie secondo traiettorie squisitamente europee.
Dead Man Down è un film che tra i produttori conta la WWE Films, la branca cinematografica della società che gestisce il wrestling statunitense, quella che ha finanziato film dove la massima aspirazione intellettuale è quella di darsele di santa ragione a mani nude per un motivo e non tanto per fare.
Ma Dead Man Down è anche il film dove il protagonista, unendo nome vero e nome finto, si chiama Victor Lazlo, come il personaggio di Casablanca, titolo non certo di riferimento per il pubblico dei film tutti calci-pugni-e-sparatorie.
È la polarità più esplicita ed elementare, questa, di un film che pare costruito in maniera quasi implacabile su contrasti e contrapposizioni, e che tenta di declinare un genere tutto americano e rigidamente codificato come l’action (o il revenge-movie, per essere esatti) secondo traiettorie squisitamente europee, fatte di sospensioni, riflessioni, sentimenti e un sottile ma onnipresente pessimismo esistenziale.
Curioso allora che americano sia lo sceneggiatore J.H. Wyman, che ha all’attivo film come The Mexican e numerosi episodi di serie tv come Fringe, mentre europeo il regista, quel Niels Arden Oplev che si è fatto conoscere fuori dalla Danimarca con il primo film della trilogia scandinava di Millennium e che si è portato dietro Noomi Rapace.
La quale, nel ruolo di una ex bella in cerca di vendetta nei confronti del pirata della strada che l’ha lasciata sfigurata, si conferma come attrice più sopravvalutata del panorama attuale.
La vendetta della smorfiosa Rapace s’intreccia allora con quella portata avanti da un legnoso Colin Farrell, in apparenza criminale, in realtà uomo che vuole punire gli assassini della sua famiglia. Sono dapprima gli sguardi dei due a incrociarsi, poi le strade, gli scopi e infine le vite, secondo una dinamica di sacrificio e salvazione reciproca che, nei suoi risvolti sentimentali, ammica al rapporto tra il Ryan Gosling e la Carey Mulligan di Drive.
Ma Niels Arden Oplev non è il connazionale Nicolas Winding Refn. Non gli si avvicina lontanamente, né formalmente, nemmeno con il supporto del direttore della fotografia Paul Cameron, che avvolge tutto con un velo caldo e patinato, né tantomeno come sensibilità, contenuti e capacità di suscitare emozioni.
Eppure, rapidamente decifrato il gioco di segreti incrociati che si gioca tra i vari protagonisti, è (o sarebbe) a quelle che tenta d’aggrapparsi Dead Man Down, che fin dal suo incipit denuncia la sua ambizione ad essere ennesimo, eppur “diverso” film sulla natura salvifica e rigeneratrice dell’amore, ma che inciampa progressivamente in goffaggini dovute, per lo più, ad una mira troppo alta, alla voglia un po’ fuori contesto di citare la Nouvelle Vague, gli esistenzialismi, i silenzi carichi di pathos e significato.
Meglio allora la tensione, la balistica, le esagerazioni spettacolari di uno show down finale che però, purtroppo, viene contaminato anche lui da quel gusto presuntamente europeo che guarda all’intellettualismo sui generis.
Alla fin fine, se botte devono essere, quasi meglio sia senza una reale ragione.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival