Darkest Minds: la recensione del thriller distopico basato sul romanzo omonimo di Alexandra Bracken
Un altro successo editoriale per young adults si trasforma in un film: questa volta, alla regia, c'è Jennifer Yuh Nelson.
I nuovi adolescenti con poteri di Darkest Minds vengono classificati coi colori, un po’ come avviene nei pronto soccorso: ci sono i verdi, quelli che si limitano a essere intelligentissimi; i gialli, che possono controllare l’elettricità; i blu, che hanno il potere della telecinesi. E poi ci sono quelli che il governo, o chi per lui, vorrebbe sopprimere a vista, perché i più pericolosi per il Sistema del mondo adulto: gli arancioni che controllano la mente, e i rossi che… beh, ve lo scoprite da soli.
Se questi rischiano la morte, gli altri non se la passano meglio, messi in campi come di concentramento che sembrano usciti dai ricordi di Magneto; e quelli fuori, non stanno poi tanto tranquilli, perché gira che ti rigira, tutti, in qualche modo, vogliono integrarli in qualche sistema o struttura per controllarli e - quindi - soggiogarli. E pure la promessa dell’Arcadia Mutante, a guardar bene, sembra essere un po’ ambigua.
Mette assieme un po’ di tutto, quello che vorrebbe essere il primo capitolo dell’ennesima saga young adult, con protagonisti adolescenti che devono fare i conti con la distopia adulta dentro la quale sono capitati, facendo conto solo su sé stessi, le loro risorse, i loro sinceri legami d’amicizia. E certo, le eco degli X-Men o degli Hunger Games si sprecano, come quelle a Divergent o The Maze Runner.
Per quanto però possa essere peccato l’essere derivativo, e per quanto non è che nel copione ci siano evoluzioni particolari in grado di deviare da uno schema narrativo ultra-collaudato, non è a che Darkest Minds gli si debba volere male.
Un po’ perché Jennifer Yuh Nelson sembra accettare questi limiti e volersi limitare a giocare al meglio le carte che ha a disposizione, senza millantare inesistenti assi nella manica; un po’ perché, diversamente da quanto accade spesso in altri prodotti del genere, il team di ragazzini alla guida di questa storia non è per nulla antipatico.
Ruby, Liam, Ciccio e Zu: quattro protagonisti, quattro diversi poteri, un’implicita ma sfumata scala di valori che non viene mai ostentata né sottolineata. Un po’ come certi protagonisti dei cartoni animati della nostra infanzia, quelli giapponesi coi robot componibili, o con altri trii, quartetti i quintetti che facevano squadra in un mondo alla deriva, e da salvare.
Quei cartoni, oggi, non ci sono più: al loro posto, questi libri e questi film young adult, che si sono presi il compito di raccontare cose molto simili con un altro linguaggio, e a ragazzi che sono più grandi dei bambini che eravamo noi. Un paradosso, pensando che oggi tutto è più precoce; coerente però alla tirannia del politicamente corretto.
A differenza degli eroi degli anime giapponesi, però, i protagonisti di Darkest Minds non devono fare i conti con un grande nemico, terrestre o extraterrestre. Per loro tutto, e tutti, è il nemico: gli adulti, il governo, i campi, i loro ipotetici salvatori. La lezione che Ruby deve imparare sulla sua pelle è che l’unica solidarietà possibile la si trova per tentativi, rifondando nuclearmente i propri rapporti da zero, e imparando a contare sulle proprie forze, che sono grandi. Perché tutto il resto, tutto il sistema, ogni forma organizzativa dall’alto, vuole solo controllare, sfruttare, reprimere. In fondo proprio come il capitalismo, che usa l’adolescenza come serbatoio infinito di bisogni e consumi per la sua alimentazione, e che Darkest Minds - altro bisogno inutile inventato da Hollywood - racconta crollato di fronte alla scomparsa del 95% della popolazione di quella fascia d’’età.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival