Cyrano: recensione del musical con Peter Dinklage
Joe Wright porta al cinema il musical Cyrano ispirato all'opera di Rostand e in un film davvero ben confezionato parla dell'amore assoluto, ma anche del ruolo della cultura e di una donna che non è affatto una fanciulla inerme.
Joe Wright è figlio di due burattinai, e fin da piccolo ha subito il fascino del teatro o meglio del teatro di marionette, che confina in uno spazio dai contorni più ristretti e ben delimitati una storia e dei personaggi. Palcoscenico e quinte, come ben sappiamo, hanno suggerito al regista l'estetica e la "forma" del suo Anna Karenina e hanno influenzato le sue scelte stilistiche, spesso felicemente barocche. Altra passione del britannico a cui dobbiamo il thriller La donna alla finestra è la letteratura, quella più classica (da Jane Austen a Lev Tolstoj a Jay M. Barrie) e quella più moderna (Ian McEwan). Ma è nella trasposizione di mirabili esempi della prima che il filmmaker dà il meglio di sé, e in tal senso Cyrano (tratto da una pièce) non fa eccezione, anche se alla base del film c'è l'omonimo musical scritto da Erica Smith (qui sceneggiatrice) e sempre interpretato da Peter Dinklage e Haley Bennett.
Fin dal principio, anzi soprattutto al principio, Wright sa cosa fare, e comincia proprio da una scena a teatro pressoché perfetta, in cui nobili dai parrucconi e dalle guance imbellettate si ritrovano per assistere alla performance di un attore dell'epoca scadente ed enfatico. Nella sequenza, il regista organizza bene i corpi nelle inquadrature e gioca con una palette di colori ora più tenui ora più accesi, sorretto, in post-produzione, da un montaggio eccelso. Ci trascina nella finzione o scavalca la quarta parete, e sembra quasi che la cipria che copre i volti degli attori esca dallo schermo per posarsi sui nostri vestiti o indurci a starnutire. E’ qui che fa la sua entrata Cyrano de Bergerac alias il più grande spadaccino di Francia, un uomo dal fine intelletto abituato a essere chiamato freak (mostro) che cattura subito l'attenzione generale e la simpatia di Roxanne, che lui ha sempre amato.
Già questo incipit vale il film, anche perché sottintende una riflessione più o meno consapevole sul ruolo della cultura in tempi passati e presenti, perché oggi i centri commerciali e i bingo regnano sovrani, mentre nel diciottesimo e diciannovesimo secolo tanto l'aristocrazia quanto il popolo andavano a teatro, e le ragazze di buona famiglia leggevano romanzi di spessore, imparavano il francese e a suonare il pianoforte. Perfino l'amore aveva un valore diverso: era fremito, palpito, rapimento, unica ragione di vita. Di amore si moriva e si parlava: in missive interminabili o sotto i balconi.
Cyrano è dunque un apologo sull'importanza dell'amore romantico? Certo che lo è, ma l'amore, ci dice Joe Wright, ha il suo più grande nemico nell'orgoglio, che frena un "piccolo" uomo che non si tira indietro quando bisogna uccidere 10 avversari. Se il film fosse una tragedia greca, il protagonista verrebbe punito dagli dei per aver peccato di hybris. Qui accade un po’ la stessa cosa, anche se il libero arbitrio è più forte del destino, e tuttavia si ha l'impressione che il regista, assorbito dal racconto, dall’implosione emotiva di Monsieur de Bergerac e dalle molteplici sfumature di un Dinklage dilaniato da un tormento interiore più o meno percettibile, talvolta dimentichi "la confezione" e allo stesso modo i conflitti, che sono ingrediente fondamentale di qualsiasi film.
Accade così che il cattivo non sia abbastanza cattivo e che non si crei la giusta chimica fra Cyrano e il bel Christian (Kelvin Harrison Jr.). E a proposito di Christian, super sexy ma stupidone, non capiamo fino in fondo l'idea di affidare il ruolo a un attore dalla pelle nera, facendo ricorso al cosiddetto colorblind casting che in Bridgerton aveva un senso (perché c'erano attori delle più svariate etnie), mentre qui no, perché tutti gli altri personaggi sono bianchi. Ciò nonostante, è inevitabile che la coppia Roxanne-Christian ricordi Daphne e il Duca di Hastings della serie di Shonda Rhimes.
Come in quel caso, anche nel nostro film la donna è brillante e vivace, ma in Cyrano il messaggio femminista è più evidente, cosa che ci rende felici. La donna infatti, apprezza sì la bellezza maschile, ma pretende lettere ben scritte e parole ben dette, e si indigna di fronte a frasi inappropriate o a silenzi imbarazzanti. Roxanne non è un'intellettuale come lo era Jane Austen, ma non tollera ignoranza e stupidità, e in questo è squisitamente contemporanea. La interpreta magistralmente Haley Bennett, che ha un fisicità interessante e gioiosa, fra il tizianesco e l'ottocentesco. L'attrice esprime bene il portentoso sentimento che la invade in una splendida sequenza dove le lettere di Christian/Cyrano volano per la stanza, e nel frattempo si possono ammirare i sopraffini costumi del nostro Massimo Parrini Cantini.
L'Italia, in Cyrano, è presente anche come ambientazione, perché il film è stato girato in Sicilia, e un'altra scena suggestiva e toccante si svolge con l'Etna sullo sfondo, a dimostrare, qualora ce ne fosse bisogno, che Wright è padrone del suo lavoro anche in esterni. Dovunque si trovi a muovere la sua macchina da presa, la sua messa in scena non sovrasta mai la vicenda e i suoi protagonisti, e questo è un ottimo risultato. Inoltre, non ci troviamo in uno di quei musical in cui il recitato e il cantato si sposano male. No, il primo scivola dolcemente nel secondo e, fortunatamente, le canzoni non sono troppe. Il problema è che non sono così belle e trascinanti, e quindi non sempre favoriscono la sospensione dell'incredulità chiamando all'identificazione. Poco male: gli occhi all'ingiù di Dinklage, che sono due laghi in cui tuffarsi e annegare, assicurano un giusto coté melodrammatico al film, e ci fanno pensare a quanto possa essere balorda e implacabile la vita.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali