Cry Macho, la recensione: Clint Eastwood si congenda smontando il suo mito
Presentato in anteprima italiana al Torino Film Festival, l'ultimo (in tutti i sensi?) film del leggendario Clint racconta di un viaggio oltre un confine che è chiaramente metaforico, ma in senso metafisico ed esistenziale. La recensione di Federico Gironi.
"Questa storia del macho è sopravvalutata".
A dire questa frase è lui, Clint Eastwood, l'uomo dagli occhi di ghiaccio, il pistolero senza nome, l'ispettore Callaghan, quello che fuggì da Alcatraz, il sergente Highway, lo spietato Bill Munny, il cowboy dello spazio. E se la dice lui, vorrà proprio dire qualcosa.
Certo, lo sappiamo benissimo che Clint ha un cuore, e che sotto la scorza del vecchio repubblicano che parla a una sedia vuota come se parlasse a Obama batte un cuore anarchico, dalle sfumature perfino liberal, e anche sensibile e tenero: "Mo cuishle". E però, di nuovo: un'ammissione così chiara, e così netta, fin troppo letterale se volete, non c'era ancora stata.
Arriva ora, arriva in Cry Macho, che è il film in cui Eastwood si mette testardamente in testa di portare sullo schermo la fatica e perfino l'imbarazzo del suo corpo ultranovantenne (che pure, se c'è da assestare un pugno sul grugno di un seccatore di turno ancora trova i rilessi di un tempo). Che è il film con cui quest'icona del cinema americano e mondiale sembra chiaramente volersi congedare dal cinema e dal suo pubblico prendendosi la briga di smontare il suo stesso mito pezzo per pezzo. Spogliandosi da ogni residua sovrastruttura.
Come in The Mule - di cui questo Cry Macho è un sorta di b-side, di appendice, di completamento di un lavoro - anche qui la vicenda è on the road. Niente droga da trasportare e soldi da fare, come in quel film, ma un favore dovuto a un ex datore di lavoro che, pur un po' stronzo, gli è stato vicino una vita: un adolescente di Città del Messico, il figlio avuto dall'uomo con una messicana un po' fuori di testa da portare in Texas. Una missione da compiere e un confine da attraversare.
Mike Milo, così si chiama Eastwood in questo film, è un vecchio cowboy - i cerchi si chiudono per bene o non si chiudono affatto - oramai tramontato, che però trova in questo viaggio l'occasione per pagare vecchi debiti, raddrizzare certi torti e potersi avviare con serenità alla fase finale della sua vita.
Ed è qui che il confine, quello che separa Stati Uniti e Messico, assume una valenza che non è geografica né politica, ma che è tutta esistenziale e perfino metafisica. Perché è chiaro che quel confine lì, in Cry Macho è quello che separa una vita da un'altra.
Mike è un Orfeo che entra in Messico per recuperare un'Euridice non sua e che uscirà dal suo piccolo inferno, mentre Mike sceglierà di rimanere in quello che è per lui è un piccolo paradiso: un piccolo pueblo, una bella locandiera, una nuova famiglia cui accudire e animali da curare e addestrare.
Ma siccome ogni viaggio che si rispetti è anche un viaggio di formazione, ecco che Mike non insegna al giovane Rafo quel che il ragazzo vorrebbe, impaziente e pieno di vita come sono tutti i ragazzi. Non i segreti dei duri, non le ruvidezze dei cowboy, ma la sapienza di una vita: la dolcezza della vita, i segreti per domare un cavallo selvaggio, il piacere della lentezza, l'importanza del rispetto il languore del sentimento. Perché "questa cosa del macho è sopravvalutata".
C'è anche un'altra cosa che Mike dice a Rafo: "Tu pensi di avere tutte le risposte, ma poi invecchi, e ti accorgi di non averne nessuna. E quanto te ne rendi conto, è troppo tardi": fatalismo, tarda consapevolezza, rassegnazione.
E quindi c'è anche questo, in Cry Macho: il bilancio esistenziale di un uomo che è consapevole dei tanti errori commessi nella vita, ma che sa accettarli, e lasciarseli alle spalle. Perché così va il mondo, così anche il cinema.
Quello che può fare, lui (lui Mike, lui Clint) è mettere in guardia i più giovani, portare a termine la sua missione e tornare indietro, rimanendo al di qua di quel confine, non tornando alla (sua) vita ma ritirandosi nella piccola, splendida utopia fatta di un villaggio sperduto, di una semplice locanda, di una donna dolce dai lunghi capelli con cui danzare verso l'eternità.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival