Cosa sarà: la recensione
In Cosa sarà Francesco Bruni racconta un momento difficile e doloroso della sua vita. Lo fa mescolando il dolce e l'amaro e affidandosi a un ottimo Kim Rossi Stuart.
E’ un film traboccante di vita Cosa sarà, anche se parla di un uomo che potrebbe finire nelle grinfie della morte, e non è, fortunatamente, un diario medico, la cronaca di trafile ben troppo note che iniziano con un'emorragia, proseguono con una biopsia e quindi con il ricovero e la chemioterapia. Si comincia dall'infanzia invece, un'infanzia con un'iconografia anni Settanta e un bambino che affida speranzoso le sue macchinine a un altro bambino. Il bambino con le macchinine è il protagonista, Bruno Salvati, che della vita si fidava eccome, e che dalla vita verrà tradito, ingannato e non piacevolmente sorpreso. Bruno Salvati è Francesco Bruni, lo sappiamo, che oltre a fare il regista è un grande sceneggiatore, e solo un grande sceneggiatore è in grado di non trasformare una dolorosa vicenda autobiografica in una celebrazione del proprio coraggio o viceversa nella cronaca di una dolorosa sconfitta, o anche nella ricerca un po' subdola e furbetta della solidarietà e di una tacita approvazione da parte del pubblico.
Bruni non cerca l'approvazione, non scivola sullo sdrucciolevole sentiero della retorica. Semplicemente, pesca ancora una volta nel calderone dei suoi personaggi maschili fragili e cialtroni nella gestione dei rapporti interpersonali, e ci trascina in un viaggio rocambolesco fra i nodi interiori di un regista in crisi, un quarantaseienne egocentrico e infantile che ha fatto dell'autoironia e di un sano cinismo le sue chiavi di accesso a un mondo che non si preoccupa di comprendere fino in fondo. E’ chiaro che, in tal senso, la malattia sarà per lui un percorso di crescita e anche di analisi personale, ma questa maturazione arriva dopo. Al regista interessa piuttosto e molto di più concentrarsi sulle disavventure spesso frenetiche del Bruno prima dell’ospedale, che ha fame di cose e di non detti da gridare, e che ha assoluto bisogno di un donatore di midollo. E’ in questa parte di Cosa sarà, che si intreccia con le scene nel reparto di ematologia, che un Kim Rossi Stuart in stato di grazia si muove fra leggerezza e malinconia (come i personaggi della commedia all'italiana), portandosi dietro, in una gita di cui non vi sveleremo la ragione, la sua bizzarra famiglia, una famiglia dove, ancora una volta, sono le donne ad avere il polso della situazione, donne che non ne possono più di essere forti e lo gridano ad alta voce. Per Bruno le donne sono delle madri e lui stesso, da homo italicus, pensa alla madre e la rivede in sogno, quando è in preda al delirio farmacologico e, come accade a chi potrebbe lasciare anzitempo questo mondo, ripensa al tempo protetto dell’infanzia.
A proposito di tempo, o meglio di tempi, Francesco Bruni non cerca il ritmo rapido ad ogni costo. Al contrario si prende le giuste pause, e con lui Salvati, che nell’urgenza di porre rimedio alla sua condizione può permettersi una lunga passeggiata sul lungomare di Livorno, che poi è la città del cuore di Francesco Bruni. Tornando a noi, senza nulla togliere alle peregrinazioni, alle agnizioni, ai parenti ricongiunti e a un finale poetico e quasi felliniano, la parte di Cosa sarà che abbiamo amato di più sono le sequenze in reparto: sospese, dolorose e cariche di dolcezza, la dolcezza di un infermiere con il sorriso di Nicola Nocella e di due occhi chiari. Sono gli occhi di Kim Rossi Stuart, che esprimono smarrimento e una profondissima solitudine. Perché si è soli quando si sta male, e quando si muore, e gli ospedali da cui non si potrebbe uscire mai più, con le luci al neon e le sveglie alle 5 del mattino, sono pianeti di una galassia lontana lontana, dove dei visi si vedono soltanto gli occhi per via delle mascherine e dove la morfina diventa il più squisito dei piaceri.
In una stanza singola con una finestra che non si può aprire e un letto occupato da un uomo in pigiama con la testa a lampadina, abbiamo trovato il senso più profondo di Cosa sarà, che è un percorso di rinascita e insieme la dolorosa ammissione che i due, cinquanta o cento anni che ci è dato vivere su questa terra un senso preciso magari non ce l'hanno. E allora tanto vale accettare le proprie imperfezioni, allacciare le cinture e provare a ripartire, non importa se per una passeggiatina o per il giro del mondo.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali