Civil War: la recensione del film di Alex Garland con Kirsten Dunst

19 marzo 2024
4.5 di 5
24

Azione, politica, sentimento, giornalismo. C'è di tutto dentro questo nuovo, potentissimo film che racconta - con intelligenza, spettacolarità e equilibrio - qualcosa di assai più vicino alla realtà di quanto si pensi. La recensione di Civil War di Federico Gironi.

Civil War: la recensione del film di Alex Garland con Kirsten Dunst

Ci sono molti modi di applicare il proprio sguardo a Civil War. Si può andare dalla lettura più superficiale, quella di un film che applica - al meglio - le estetiche dell’action contemporaneo a una vicenda di fantasia che parte dalla nostra realtà, fino a quella per la quale quello di Alex Garland non è solo un film sui pericoli della polarizzazione estrema delle società occidentali, ma ancor di più sul ruolo (perfino etico e morale) giocato dalla stampa, e in generale delle élite, nella gestione delle linee di faglia che frantumano il tessuto sociale fino a generare terremoti distruttivi. È lecita anche una visione mediana, che fa di Civil War l’erede contemporaneo di film che, raccontando il giornalismo (di guerra), raccontavano la politica (da Un anno vissuto pericolosamente a Salvador, senza dimenticare Sotto tiro), declinato secondo le coordinate distorte e da incubo, sommessamente psichedeliche, tipiche dell’immaginario dell’inglese.
Comunque lo spettatore scelga di voler guardare il film, le soddisfazioni non mancheranno.

È un film estremamente potente, quello di Garland. È un film potente e trascinante per via delle immagini che mette sullo schermo, per come lavora i nervi dello spettatore nei momenti di stasi e di tensione, e per come successivamente bombarda i suoi sensi per raccontare attentati, scontri, agguati, assalti. È potente per come lavora in maniera spietatamente iconoclasta nei confronti dei simboli civili e politici degli Stati Uniti (si inizia con un attentato nel cuore di New York e si finisce con un assalto militare fatto di carri armati e elicotteri al Campidoglio e alla Casa Bianca). Lo è perché (pur lasciando la possibilità a chi vuole - in maniera un po’ forzata - di intravedere la possibilità di un’identificazione tra il presidente del film e uno a piacere, o quasi, dei reali candidati alle presidenziali USA di novembre) Garland mette la questione partitica da parte, non prende posizione esplicita, non dice “Trump cattivo, Biden buono” o viceversa. A dimostrarlo il fatto che, in guerra col governo federale così come lo conosciamo, c’è un esercito secessionista che mette in assieme, due stelle su un’unica bandiera, la democraticissima California e il repubblicanissimo Texas.
È potente, Civil War, perché raccontando la storia di coloro che dovrebbero essere testimoni oggettivi dei fatti, dei giornalisti di guerra, testimoni che entrano in crisi riguardo il loro ruolo di fronte a quel che vedono e vivono, proietta su noi stessi lo stesso interrogativo etico e morale che riguarda lo sguardo, e la sua supposta neutralità.

La trama è semplice, i personaggi esemplari. Kirsten Dunst (bravissima, minimale, implosa), è Lee (come Lee Miller), leggendaria fotografa di guerra che, col collega Joel (Wagner Moura), giornalista della Reuters, decide di andare da New York a Washington per testimoniare l’ingresso delle truppe secessioniste nella capitale e cercare di intervistare il Presidente per l’ultima volta, prima che questi venga destituito, o peggio. A loro, in auto, si aggregano Sammy (Stephen McKinley Henderson, splendido caratterista), un anziano veterano di “quel che resta del New York Times”, e la giovanissima Jessie (la Cailee Spaeny di Priscilla), aspirante fotoreporter che venera Lee e che spera di esordire col botto in quel di Washington.
Importa ben poco che i destini di questi personaggi siano prevedibili, che è chiaro e ovvio che Lee stabilità con Jessie un rapporto che travalica quello tra una mentore e una discepola, ma diviene ruvidamente materno. Importa poco che sarà proprio quel rapporto, anche, a mettere in crisi la sua glacialità, la sua dichiarata necessità di spegnere sensazioni e pulsioni di fronte all’orrore che una che fa il suo mestiere sceglie di andare a fotografare.
Quel che importa, come recita il luogo comune, è il viaggio (anche se qui pure la destinazione conta eccome). Un viaggio che si rivelerà ancor più pieno di pericoli, e di traumi, di quanto non fosse stato lucidamente messo in conto al momento di lasciare New York.

Quel che Civil War mette di fronte ai suoi protagonisti, e a noi spettatori, è uno scenario che non ha nulla di nuovo: le atrocità della guerra sono quelle che il cinema e i media ci hanno riportato da decenni a questa parte. Ci sono i fanatici che si fanno saltare in aria, gli sciacalli, quelli che torturano e impiccano chi sospettano di collaborare col nemico, ci sono le fosse comuni, le violenze gratuite, i cecchini asserragliati sui tetti delle case.
Solo che tutto questo non avviene in Siria, in Bosnia, in Ucraina, in Afghanistan, a Gaza o in Sudan, ma negli Stati Uniti d’America, e vittime e carnefici sono entrambi americani. La differenza, sul piano simbolico, non è da poco. Come non è da poco mettere sullo schermo i simboli della democrazia e del governo americano di Washington venire assaltati non da uno sciamano seguace di QAnon, ma da forze armate che rispondono a un comando militare e un nuovo governo.
Non è da poco, tutto questi, nemmeno per i protagonisti del film: americani, che si trovano di fronte una versione brutale e lisergica assieme (la scena agghiacciante che vede protagonista uno spietato Jesse Plemons e sospesa e allucinata del “cecchino di Natale”) di quello che è, o è diventato, il loro paese. Un paese che riecheggia anche in una colonna sonora (bellissima) che mette assieme le sonorità più americane che si possano immaginare: dal blues al rap dei De La Soul, passando per il southern rock.

La questione, va ribadito ancora una volta, non è politica. Perlomeno non è partitica, politica dal punto di vista più limitato, e purtroppo diffuso.
La questione, in Civil War è anzi addirittura relativa all’assenza di politica: della politica intesa nel senso etimologico, della volontà e della capacità di occuparsi della cosa pubblica. Perché quella politica lì, dal panorama statunitense, ma anche occidentale, e italiano, pare essere drammaticamente assente, con le conseguenze che tutti abbiamo sotto gli occhi e che Garland racconta con uno sforzo nemmeno troppo eccessivo di immaginazione.
Ma, ancora di più, la questione riguarda il giornalismo, in senso ampio le élite, e le responsabilità di chi racconta una storia, e quelle del nostro sguardo.
Lee, che come detto si chiama come Lee Miller, la prima fotografa a entrare nei campi di concentramento nazisti dopo la caduta di Hitler, entra in crisi di fronte all’orrore, e di fronte alla proiezione della sé stessa giovane che è incarnata in Jessie. Si pone, silenziosamente, le stesse domande che dovremmo porci noi: quali sono le mie responsabilità di fronte a ciò che vedo? Devo essere davvero testimone imparziale? Oppure devo scegliere una parte, la parte dell’umanità, della solidarietà, dell’empatia? Quali sono e sono stati meriti e responsabilità della mia testimonianza muta? Che ruolo morale e etico devo insegnare, a chi prenderà il mio posto?

Il destino di Lee dice molto sulle possibili risposte alle sue domande, e sul loro senso. Ma Garland, che dal primo minuto ci proietta nel film, di responsabilizza, e ci identifica coi suoi personaggi, vuole che queste domande siano anche le nostre. Quale che sia la risposta che ci daremo: in quanto cittadini, in quanto testimoni, in quanto spettatori. In quanto soggetti che troppo spesso, posano il loro sguardo sulle tragedie e le crisi del presente senza mai interrogarsi su nulla, ingerendo e basta, per poi passare a altro, senza comprendere la responsabilità che c’è nel guardare, anche solo oggettivamente.
Che poi tutto questo ci venga raccontato da un regista che, col suo cinema spettacolare e metaforico, ha anche parlato spesso dell’inganno che è insito dietro a ciò che vediamo, ai meccanismi della percezione, rende il discorso ancora più complesso, e interessante.
Il dibattito, per una volta, è aperto. Per fortuna.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
Suggerisci una correzione per la recensione
Palinsesto di tutti i film in programmazione attualmente nei cinema, con informazioni, orari e sale.
Trova i migliori Film e Serie TV disponibili sulle principali piattaforme di streaming legale.
I Programmi in tv ora in diretta, la guida completa di tutti i canali televisi del palinsesto.
Piattaforme Streaming
Netflix
Amazon Prime Video
Disney+
NOW
Infinity+
CHILI
TIMVision
Apple Itunes
Google Play
RaiPlay
Rakuten TV
Paramount+
HODTV
lascia un commento