Black Flies: la recensione del film in concorso al Festival di Cannes 2023

19 maggio 2023
2.5 di 5

Ambizioni scorsiane (anzi, schraderiane) e estetica moderno-modaiola alla Gaspar Noé per un film cupo e provocatorio, almeno nelle immagini, ma anche semplicistico e superficiale. Fortuna ci sono gli attori: Tye Sheridan e Sean Penn. La recensione di Black Flies di Federico Gironi.

Black Flies: la recensione del film in concorso al Festival di Cannes 2023

Ollie (Tye Sheridan) viene dal Colorado, è a New York perché vuole provare a entrare a medicina, e intanto per mantenersi fa il paramedico. Lavora sulle ambulanze, insomma.
Un lavoraccio, lo sappiamo tutti, e non solo perché è faticoso fisicamente e psicologicamente. Un lavoraccio perché spesso chi lavora sulle ambulanze, nelle grandi città, ha a che fare con i lati peggiori (o più complicati e contraddittori) della natura umana.
Per Ollie non è che questo accada spesso: accade sempre. Lavorando nell’area di East New York, incontra solo tossici, teppisti iper-tatuati ai quali hanno sparato o tirato una coltellata, alcolizzati, mariti violenti, emarginati vari.
A Ollie va bene, perché lui, che ha un trauma familiare che si porta appresso, piacerebbe essere l’angelo della salvezza. Per farcelo capire bene, Jean-Stéphane Sauvaire (il regista di Black Flies) gli mette addosso, quando non lavora, un giubbotto rosso con due decorazioni a forma di ala che dalle scapole scendono lungo le maniche. E se non fosse abbastanza, nella sua spoglia stanzetta che divide con due misteriosi coinquilini cinesi a Chinatown, c’è appeso sul muro il quadro di un angelo (San Michele). Lo sfondo rosso come il giubbotto. Il livello di simbolismi del film è questo, sempre.
Ma se Ollie, il novellino di turno, vuole essere un angelo, i suoi colleghi, non solo l’odioso e nevrotico personaggio interpretato da un redivivo Michael Pitt, ma anche il ruvido, esperto, silenzioso Rut di Sean Penn, un veterano che ha sempre lo stecchino in bocca e soffre in silenzio per il divorzio dalla moglie, e che prende Ollie sotto la sua ala, sono giunti da tempo a conclusioni opposte.
Altro che angeli della salvezza. Questi paramedici, abbrutiti dallo squallore della natura umana, a volte hanno la tentazione (si prendono la libertà?) di diventare angeli della morte.

Mira altissimo, Black Flies.
Mira altissimo come contenuti, perché insomma, si tratta di questioni morali di un certo peso, che vengono però piuttosto semplificate e risolte con un colpo di coda di buonismo che lascia l’amaro in bocca. E mira altissimo, ancora di più, nella forma.
La New York di Black Flies pare quella di Scorsese (e non solo dello Scorsese di Al di là della vita, anche se quel film è un chiaro modello) rifatta da un regista tipo Gaspar Noé, per citare uno con cui Sauvaire, all’inizio della sua carriera, aveva lavorato. Volendo - e vogliamo, dobbiamo volere, perché un paio di scene sulla spiaggia di Coney Island gridano quel titolo a voce altissima - c’è pure da mettere in mezzo I guerrieri della notte di Walter Hill.
Quella di Black Flies è una New York notturna, brutale, allucinata, fatta di luci (luci di fari, sirene, insegne, torce elettriche) che si spalmano e si riflettono sulle superfici ma che non riescono a squarciare mai del tutto - scusate la banalità, ma è del film, e non mia - il buio dell’animo umano.
La mira è alta, la grana è grossa.
Non si va mai per il sottile, tra rianimazioni in mezzo a un macello islamico, e giovani madri che vanno in overdose, l’ago nel braccio, e neonati forse morti, forse no, coperti da sangue con l’HIV.
Ma, per tornare a un parallelo scorseisano, il problema non è nemmeno tanto quello, quanto il fatto che nelle sue ambizioni di voler ragionare su etica e morale, sugli abissi che l’uomo è in grado di esplorare così come sulle vette ideali e idealiste che, qui, hanno perfino una sfumatura religiosa, manca lo spessore di un Paul Schrader, capace di fare ragionamenti seri e profondi, filosofici magari, e di tenere in piedi la baracca di Sauvaire.
Anche perché la redenzione è scontata (quella di Ollie), così come scontata è la parabola del suo socio Rut: uno che, tutto sommato, ci deve pure fare un po’ pena. Si è fatto pure l’11/9, d’altronde.
Sheridan e Pitt comunque funzionano, c’è Mike Tyson che fa il loro capitano e funziona un po’ meno, e alcune scene non sono male, perlomeno dal punto di vista tecnico.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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