C'mon C'mon, la recensione: Mike Mills, Joaquin Phoenix, la vita e il neosensibilismo statunitense
Presentato in Selezione Ufficiale alla Festa del Cinema di Roma il nuovo film di Mills, uno dei migliori registi indie americani: un racconto minimalista e ambizioso, che ogni tanto stona per inseguire il neosensibilismo woke che ha origine negli Stati Uniti. C'mon C'mon arriverà prossimamente nelle sale italiane distribuito da Notorious Pictures.
Essere figlio, fratello, genitore, amico. Fare i conti con il prevedibile e l'imprevedibile dell'esistenza. Gestire emozioni e sentimenti, esprimerli. Fare esperienze e ricordarle. In una parola: vivere.
Di questo vuole parlare Mike Mills: con ambizione, certo, ma anche con la consueta umiltà di fronte alle cose e alle persone, con l'abituale cuore aperto per accogliere eventi e sentimenti. Con quel minimalismo dolce cui ha abituato col suo cinema precedente.
Lo schema è semplice e collaudato: l'incontro tra due personaggi, uno adulto uno bambini, che devono scoprirsi, impararsi, completarsi; la dinamica del viaggio; la crescita reciproca.
Da un lato Johnny, giornalista radiofonico sensibile e generoso, ma che vive un'impasse emotiva dopo la morte della madre e l'addio della donna che amava; dall'altro Jesse, suo nipote di otto anni, curioso e iperattivo come i bambini della sua età, gravato dalla sofferenza per un padre bipolare che vive lontano da lui. Attorno a loro, la mamma di Jesse e sorella di Johnny, donna che porta il fardello della maternità e di quel marito difficile, e le voci dei tanti ragazzi che Johnny registra, in tutta l'America, interrogandoli sui loro sentimenti, le loro paure, le loro aspirazioni.
Mills è uno bravo. Scrive e dirige i suoi film riuscendo a cogliere la natura intima dei suoi personaggi, ad acquarellare con delicatezza sentimenti e stati d'animo, ad ascoltare quello che la storia richiede, oltre che a imporre una direzione. È per questo che, alla fine della fiera, C'mon C'mon riesce a tenerti lì con lui, e perfino muoverti a una composta commozione nelle sue fasi finali.
E però è innegabile che tutta quell'ostentazione di tenerezza, tutta quella voglia di smussare ogni angolo e ogni asperità (anche nella recitazione di un Joaquin Phoenix bravo, ma insolitamente privo di guizzi ruvidi e sulfurei), e di essere programmaticamente dolce e buono, possono far scoraggiare anche gli spettatori meglio intenzionati.
In più, C'mon C'mon ha un problema strutturale di una certa importanza.
In una storia progettata attorno a due personaggi che dovrebbero fare a gara a strapparti empatia e immedesimazione, ce n'è uno che finisce col risultare francamente irritante, e che è la spia di quanto Mills abbia interiorizzato all'eccesso quella sorta di neosensibilismo ultrasuscettibile che, negli Stati Uniti di oggi, si traduce in alcune sfumature della cultura woke: di quel modo di fare e pensare per il quale ogni nevrosi va accarezzata e non superata, ogni bizza è figlia di un trauma da compatire, ogni sentimento che nasca del sé valido, ogni rapporto - persino quello tra genitori e figli, per quanto figurati - debba essere improntato a una eguaglianza paritaria che non ammette ma anzi condanna ogni forma di atteggiamento autoritario.
In breve: Jesse è un ragazzino viziato e spesso insopportabile (altre volte adorabile, certo, ma il piano di Mills è proprio questo) al quale è concesso tutto e al quale va chiesto scusa per averlo sgridato. E in fondo, a ben vedere, Johnny non è però tanto diverso da lui. È un adulto, certo, ma un adulto bisognoso di una mamma, esattamente come lo è suo nipote.
Perché C'mon C'mon è anche, e forse prima di tutto, un grande atto d'amore nei confronti delle madri, enfatizzato dalla loro sostanziale assenza, e dalla presenza di due figli che devono imparare a cavarsela da soli.
A Mills è difficilmente contestabile l'onestà intellettuale e perfino emotiva del suo racconto, ed è facile riconoscersi in almeno alcune delle sfide che la vita mette di fronte ai suoi protagonisti, e che riguardano la sfera del sentimento. Quello che questa volta però stona, e a tratti respinge, sono i toni che adotta, figli di una cultura progressista statunitense per la quale vige l'ansia del safe space, dell'assenza di contrasti, di elementi potenzialmente critici e spiazzanti.
Bisogna imparare a esprimere le proprie emozioni anche quando non si sta bene, e capire che è normale sentirsi così, dice Mills in C'mon C'mon per bocca di Phoenix. Verissimo: ma bisognerebbe anche imparare a fare i conti con le asperità della vita, e confrontarsi con qualcosa e qualcuno che non è dolce e comprensivo per forza. A vivere in uno spazio che non è e non può essere solo safe.
Solo così, temo, si può crescere davvero. E lasciare un po' in pace queste povere madri.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival