C'era una volta in America - recensione della Director's Cut restaurata

17 ottobre 2012
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26 minuti di scene inedite avvicinano il film alla versione ultima che Sergio Leone avrebbe voluto. C'era una volta in America è stato un’ossessione per lui e una benedizione per gli spettatori.

C'era una volta in America - recensione della Director's Cut restaurata

Rivedere o vedere al cinema per la prima volta C'era una volta in America aiuta a fare a piedi pari alcuni significativi salti di consapevolezza.
Si riesce a comprendere la differenza tra un film e un’opera, tra una visione e una suggestione, tra un passaggio e una fermata. La mano del regista cala sulla testa di chi guarda, tramutando un’ossessione lunga un decennio per un film montato, mutilato, rimontato, restaurato, in una benedizione per lo spettatore. Ed è possibile scoprire che "saga", un tempo, era un termine solenne volto ad indicare la ricchezza di una narrazione cinematografica nella sua unicità, senza sequel, prequel o spin-off.

Non è un film perfetto l’ultimo lavoro di Sergio Leone, datato 1984. Non ne ha bisogno, perché deve essere vissuto e la vita stessa è lungi da qualunque speranza di perfezione. Al contrario di quanto abbia fatto Stanley Kubrick - anche lui eroso dall’ossessione di trovare l’impossibile corrispondenza tra il cinema e le proprie elucubrazioni mentali - che ha raggiunto un’eccellenza non eguagliabile con i suoi film, Leone aveva una diversa esigenza finale. Kubrick esibiva al pubblico, Leone condivideva con il pubblico. Non è un caso che Leone voglia condividere in questo film la stima per il collega con un omaggio ad Arancia Meccanica, con l’intera sequenza della nursery.

C’era una volta in America è una lunga storia di piccoli delinquenti divenuti spietati gangster. Quei personaggi, Noodles di Robert De Niro e Max di James Woods, crescono, evolvono e regrediscono insieme ad un paese conservatore capace di inquinare qualunque spirito proletario. Loro sono al di sopra degli eventi sociali, versano sangue altrui, si fanno beffe del proibizionismo con armi ed egocentrismo. Si fanno compatire e dieci minuti più tardi detestare, questa è l’altalena emotiva della storia senza che minimamente sia intaccata la credibilità del loro rapporto. Woods irrequieto, De Niro moderato, quest’ultimo protagonista delle scene più romantica e più crudele, concatenate una con l’altra come se fosse uno stupro a lume di candela, ai danni della Deborah di Elisabeth McGovern. Tutte le vicende galleggiano nella sospensione del tempo narrativo, in cui il presente è e non è, contemporaneamente, tute e nessuna delle tre epoche raccontate. In questo, il regista raggiunge la lirica cinematografica con immagini di potente poesia, come la danza dell’allora tredicenne Jennifer Connelly tra i sacchi di farina.

Quattro ore e venti minuti circa. Tanto dura questa versione restaurata e completata con le scene finora rimaste inedite, che aggiungono ma non alterano. La visione non comporta alcuna fatica intellettuale o fisica, a patto di avere una poltrona comoda. Quelle quattro ore sono un tempo anch’esso sospeso, in cui si respira diffusamente l’artigianato italiano a cominciare dall’ennesimo indimenticabile tema di Ennio Morricone, dal contributo degli sceneggiatori alla fotografia, dalle scenografie ai costumi. Ciò che riesce a Sergio Leone è la trasfusione di sapori e suoni esalatati dai suoi collaboratori. Come se lui stesso ci porgesse i suoi indumenti, il cappello e il cappotto, per farci due passi nella sua Brooklyn. Quel cappotto può essere sgualcito e quel cappello sfoderato, ma l’odore del tessuto e del vissuto ci restano addosso.



C'era una volta in America
Trailer italiano della nuova versione restaurata del film


  • Giornalista cinematografico
  • Copywriter e autore di format TV/Web
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