C'era una volta a New York - la recensione del film di James Gray
Arrivato al sesto film in carriera, James Gray cambia strada rimanendo sé stesso, e confrontandosi con un tema importante come la nascita dell’America contemporanea e le sue dinamiche.
Arrivato al sesto film in carriera, James Gray cambia strada rimanendo sé stesso, e confrontandosi con un tema importante come la nascita dell’America contemporanea e le sue dinamiche. Cambia strada perché cambia genere e setting temporale. Rimane sé stesso perché continua a parlare dei legami del sangue e delle loro rivalità, degli amori travagliati e della loro tragica impossibilità.
L’immigrata del titolo, è infatti Ewa, ragazza sbarcata ad Ellis Island nel 1921, che finisce nelle grinfie di Bruno, un uomo complesso e travagliato il quale, pur amandola, la spingerà verso la prostituzione. E Ewa si piega e si umilia, infatti, pur di garantire i soldi necessari alle cure per la sorella tubercolotica costretta a rimanere su Ellis Island, mentre Bruno vive una rivalità e una gelosia nei confronti del cugino Orlando, anche lui stregato dal fascino della giovane.
Questi temi, e la consueta grande abilità nel girare, sono però gli unici reali punti di contatto di C'era una volta a New York con il cinema precedente di Gray: un cinema finora potente e coinvolgente, che qui invece si appiattisce nelle tonalità ocra di un melodramma già visto e sentito, nei risvolti di una storia priva di ogni originalità come nelle atmosfere che sono chiaramente debitrici di quelle del Leone di C’era una volta in America, dello Scorsese di Gangs of New York, dei loro succedanei e perfino, in qualche modo, del Crialese di Nuovomondo.
Sempre notevole tecnicamente, la regia di Gray questa volta fallisce nel trovare le sfumature giuste per dare a un copione non eccezionale il necessario spessore emotivo, riducendo il film a un drammone ponderoso, ripetitivo e piuttosto noioso le cui pietre angolari sembrano essere le scene studiate a puntino per far sgranare gli occhioni a Marion Cotillard, regalarle un monologo, far sfogare l’istrionismo dolente di Joaquin Phoenix.
Sull’America, la sua nascita, le sue contraddizioni, il suo sangue, Gray non riesce davvero a dir nulla di pregnante.
Peccato, perché il dettaglio dal quale poteva germinare un ragionamento interessante c’era: tutto il film gira attorno al mondo dello spettacolo, Bruno è prima di un protettore è il gestore di uno spettacolo teatrale di bassa lega, animato dalle stesse ragazze che poi prostituisce; Orlando è un mago; i momenti di messa in scena teatrale all’interno del film abbandano e il dilemma esposto a Bruno dalla sua socia all’inizio del film riguarda come far concorrenza al montante cinematografo.
Eppure, di quest’America costruita sugli spettacoli scandenti e sulle illusioni, sulle messe in scena mai catartiche e sullo squallore del dietro le quinte, Gray si disinteressa. Per lui di C'era una volta a New York è importante solo il dramma delll’orfanella polacca costretta alla prostituzione, il suo tribolato percorso di emancipazione e redenzione ribadito a chiare lettere over and over and over again.
Che peccato.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival