Black Panther: Wakanda Forever, la recensione di un film sentito e difficile
Ryan Coogler e il suo cast sono riusciti a costruire Black Panther: Wakanda Forever senza Chadwick Boseman, ma senza nemmeno sostituirlo, anzi onorandolo. La nostra recensione.
Dopo la scomparsa di T'Challa, il regno di Wakanda cerca una propria identità: l'elaborazione del lutto pesa soprattutto sulle spalle della regina Ramonda (Angela Bassett), di sua figlia Shuri (Letitia Wright) e di Okoye (Danai Guria), proprio quando il vibranium comincia a far gola ad altre nazioni del mondo. Questa corsa al misterioso minerale causa l'entrata in scena di Namor (Tenoch Huerta), che ha un suo interesse ad avercela col mondo intero, ma non necessariamente con la stessa filosofia del Wakanda. Come si può andare avanti senza il simbolo di T'Challa?
A volte succede, ma non nel migliore dei modi. A volte capita che la catena di montaggio di una grande major rischi di essere compromessa da un evento esterno, che porta un'identità imprevista a un film come Black Panther: Wakanda Forever, ancora diretto e in parte scritto da Ryan Coogler. Uno scopo che va oltre quello di mandare avanti il Marvel Cinematic Universe e la macchina produttiva dei Marvel Studios disneyani. L'evento in questione purtroppo è un'ispirazione che nessuno, a partire dal regista per finire col cast, avrebbe voluto avere: la scomparsa nel 2020 di Chadwick Boseman, titolare della saga nel ruolo di T'Challa, per un tumore al colon.
La particolarità significativa qui non è nel prosieguo della saga con Black Panther 2, a dispetto di un evento clamoroso come la morte dell'attore protagonista. I Marvel Studios e la Disney avrebbero tutto il potere produttivo per attivare in men che non si dica un casting per il rimpiazzo, o in alternativa i deepfake a cura dell'Industrial Light & Magic, come hanno dimostrato scene in alcune serie di Star Wars, hanno raggiunto una qualità stupefacente tale da poter risolvere la situazione con una replica digitale di Chadwick. L'elemento di interesse qui invece è che il contesto, tutto quello che Boseman e il primo Black Panther hanno significato, ha contaminato il testo, cioè questo sequel che ci troviamo di fronte, fondendo la realtà con la fiction.
Con l'intelligente benedizione del presidente dei Marvel Studios, Kevin Feige, Coogler ha aggiornato il mondo del Wakanda allo stato della realtà, accettando la morte di T'Challa e sfidando se stesso e le attrici, tramite il copione, ad abbracciare definitivamente il senso politico e sociale della saga più importante da questo punto di vista nel Marvel Cinematic Universe. Qui da noi Black Panther non è stato recepito come negli States, quando il film nel 2018 ha incarnato le rivendicazioni della comunità black, rompendo il tetto di cristallo del kolossal, con un simbolico film ad alto budget realizzato e interpretato interamente da persone di colore.
La faticosa accettazione di un ruolo di guida verso la "propria gente" era condivisa da T'Challa, dagli autori e dal cast di questi film, e questo alto compito non poteva essere sminuito da un procedimento meccanico. Perciò, nella convinzione politica e religiosa che le persone non muoiano mai, sostituite dal loro lascito, dal loro esempio, Black Panther: Wakanda Forever scinde Black Panther da una persona in carne ossa, facendolo diventare un concetto, un'idea. Un'idea di libertà, di buon governo, di saggezza, di equilibrio, di coraggio. Un'eredità aperta.
Non pensiate che Black Panther: Wakanda Forever dimentichi di essere un cinecomic Marvel: a parte la cornice, che omaggia Chadwick Boseman giocando col pubblico sul filo della quarta parete, le due ore e quaranta di film raccontano comunque una classica storia epica del MCU, nel bene e nel male, con le inevitabili battaglie in CGI e - onestamente - forse con minore freschezza rispetto all'opera precedente, con meno magia e più concretezza. Fortunatamente Coogler ha l'idea di allargare questo concetto di rappresentanza e inclusività del quale il film precedente si era fatto alfiere, perché il "cattivo" Namor è a sua volta portavoce dell'umiliazione della cultura Maya da parte dei colonizzatori. Il folklore africano, il suono del linguaggio e gli accenti, si fondono quindi sullo schermo col recupero della storia e dei dialetti indigeni mesoamericani. E non sono più le sole "black lives" a contare, in un messaggio di incitamento ad accettare la propria identità, senza sparire, per fare muro contro chi si riconosce nella cancellazione e nella sostituzione.
Non è un film privo di lungaggini, Black Panther: Wakanda Forever, non è visivamente molto suggestivo, non presenta scene d'azione che si distinguano dalla massa del genere. Eppure non se ne può sminuire la forza emotiva rara nel contesto hollywoodiano dei blockbuster, non si può non riconoscerne l'ambizione, che Coogler insegue e per la quale ottiene la complicità del cast, con Letitia Wright e Lupita Nyong'o in testa. Si può essere autoriali anche così, non imprimendo a un film il proprio stile (come hanno fatto Sam Raimi con Doctor Strange 2 o Taika Waititi con Thor 4), ma insegnando al pubblico di massa cosa significhi l'elaborazione del lutto collettivo, ponendosi domande sul senso e l'importanza di un racconto che non deve finire. Non solo perché banalmente "the show must go on", ma anche perché lo "show" in questo caso è un cavallo di Troia per le speranze di una gran parte del suo pubblico. Cinecomic ma non solo.
- Giornalista specializzato in audiovisivi
- Autore di "La stirpe di Topolino"