Big Game: recensione del film con Samuel L. Jackson presidente USA in lotta per la sopravvivenza
Non capisci quanto si stia prendendo sul serio davvero, o quanto stia facendo finta.
Lo guardi, Big Game, e non capisci mai quanto si stia prendendo sul serio
davvero, o quanto stia abilmente facendo finta di farlo. Quanto, o quando.
Intendiamoci, per carità: non è che nel suo film Jalmari Helander tenti di essere
Kieslowski, ma l'interrogativo si pone ugualmente anche rimanendo, con orgoglio,
all'interno del perimetro di un genere, l'action, che con la serietà gioca fin dagli anni Ottanta.
Perché l'enfasi retorica con la quale ogni tanto Big Game racconta
la sua strampalata storia - quella di un Samuel L. Jackson presidente USA
un po' pavido, fatto precipitare nei boschi della Finlandia del nord e salvato dal complotto che vuole
ucciderlo da un cacciatore 13enne proprio la notte in cui il ragazzino deve dimostrare a suo padre di
essere un uomo - è a volte tanto sfacciata da soffocare la connaturata ironia.
Il copione di Helander, fin troppo ricco di colpi di scena, e i soldi della produzione
non hanno attirato solo Jackson, ma anche caratteristi solidi come Jim
Broadbent, Ray Stevenson e Victor Garber, figure e dettagli non
trascurabili in un film che vive soprattutto di quelli, e non solo di sparatorie e esplosioni.
Quando anzi si alza il tasso di adrenalina e la potenza di fuoco, Big Game
perde lucidità e identità, trovando in un'epica che non si può permettere il suo registro prevalente
e schiacciante. Invece, nei momenti di raccordo, quando l'ironia si mostra per quel che è, e
demitizza la storia e i suoi protagonisti, il film di Hedlander gira più fluido e fa sorridere.
Perché allora ricercare non solo la retorica, ma perfino la lacrima, nel rapporto padre-figlio, nel
coming of age boschivo e venatorio?
Con la follia, la sregolatezza e la quadrata ruvidità un po' machista che non è sbagliato associare alla
Finlandia, Big Game eredita pregi e difetti del precedente
lavoro del suo autore, Rare Exports: a Christmas Tale,
quello in cui si raccontava un'insolita, spaventosa e adrenalinica storia di Babbo Natale, limitandone però i
guizzi anarchici e iconoclasti, e anzi aggrappandosi ai simboli (dalla bandiera americana all'arco con le
frecce) con un pizzico di disperazione di troppo.
Noi, allora, ci aggrappiamo al resto, ai dettagli, alle piccole invenzioni grottesche e
surreali: dai telefoni coi barattoli ai passaporti sui quali come professione è indicato
"Presidente", dai generali da operetta agli agenti CIA stropicciati e ambigui, dalla faccia tosta di
Jackson a quella sorniona di Broadbent. Sperando che un colpo di
scena lasciato scivolare distrattamente nel finale non sia indice di un possibile seguito.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival