Big Eyes - la recensione del film di Tim Burton con Amy Adams e Christoph Waltz
Un biopic dalle molte sfaccettature, e un po' scentrato.
La significativa e coerente citazione di Andy Warhol che apre Big Eyes ha il merito - se non altro e casomai ce ne fosse il bisogno - di illuminare gli abissi di danni che il pensiero dell’artista americano, preso e ripetuto senza applicare tare e ragionamenti, ha generato nel corso degli anni. Danni e orrori con cui ancora oggi dobbiamo fare i conti, in una realtà che è una galleria degli orrori composta da riflessi deformati di 15 minuti di celebrità, di pop a tutti i costi, di dittatura del pubblico, di pretese artistiche a costo (intellettuale) zero.
La citazione in questione si riferisce ai quadri di Margaret Keane che per oltre dieci anni si attibuì il marito Walter, francamente bruttini: che, secondo Warhol, non potevano essere brutti in virtù della loro straordinaria popolarità.
Di qui, e col procedere del racconto, è facile intuire come il nuovo film di Tim Burton non sia solo un racconto biografico sui coniugi Keane, o una storia di come una donna, francamente un po’ nevrotica e di debolezza patologica, sia riuscita faticosamente a liberarsi dal gioco psicologico di un marito mitomane, aggressivo e usurpatore. Che, sia detto per inciso, basta e avanza per fare la felicità delle senonoraquandiste di tutta Italia.
Big Eyes, attraverso la storia dei Keane, racconta proprio della grande intuizione warholiana, che riuscì a sublimare e raccontare con l'arte quel che gia esisteva, germinale, nella società statunitense degli anni Sessanta e che è progredito geometricamente fino ai giorni nostri: parla di persone ossessionata dalla fama e dal successo, prima ancora che dalla ricchezza, deformate e ridotte a freak dai loro sogni di gloria; della perversa e geniale vuota idiozia del marketing prima ancora che questo fosse inventato; della società dell’immagine e del suo futuro trasformarsi in società del virtuale, dove il contenuto non esiste più, ma solo il suo involucro.
Raccontando l’America degli anni Sessanta e i Keane, nuove grottesche e simboliche figure tratteggiate dagli stessi sceneggiatori di Man on the Moon e Larry Flynt, Tim Burton racconta noi stessi e il nostro mondo, azzerando la distanza tra l’ambizioso artista privo di ogni talento, ladro delle opere (mediocri) della moglie, e un qualsiasi tronista televisivo, un qualsiasi concorrente di reality.
Peccato che, nonostante il personaggio di un critico già vecchio perfino per quegli anni, e interpretato da uno ieratico Terence Stamp, e nonostante il tentativo di contrapporre, attraverso di lui, lo stile e l’arte al mero kitsch, mettendo così in gioco anche sé stesso, il suo cinema e le relative stereotipizzazioni, Burton non riesca a dare spessore e pregnanza a un’intuizione peraltro non originalissima.
In quello che forse è il film più lineare e meno barocco della sua carriera (tanto che, in quel profluvio di pop e pastello, a tratti sembra cercare di imitare Wes Anderson), Burton appiana la forma, si muove agile e fluido in placida scorrevolezza prima di perdersi in qualche sciatteria di troppo, ma penalizza il contenuto, e rimane ossessionato dai nuovi freak che racconta tanto da perdere in più di un momento. E - soprattutto in un finale frettoloso e tirato via, dove l’istrionismo isterico di un Christoph Waltz sempre troppo sopra le righe si fa francamente insopportabile - stona quasi sempre tanto nei momenti drammatici che in quelli comici e caricaturali.
Nell’evidente tentativo di scimmiottare, dall’alto, lo stile naif e kitsch dei quadri della Keane, Big Eyes finesce col caderci dentro con tutte le scarpe, assumere il carattere testardo ma debole e velleitario della pittrice, il colorito pallido e lo sguardo ceruleo e smarrito della Amy Adams che la interpreta.
Big Eyes, insomma, non ha la forza biografica di un Ed Wood, né la sfrontatezza camp e sghangherata di Dark Shadows. E la maledizione inconsapevole di Andy Warhol non viene esorcizzata né allontanata in alcun modo, ma anzi reiterata dalla liberazione (umanamente più che condivisibile) di Margaret.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival