Bianca come il latte, rossa come il sangue - la recensione del film
Con grazia, candore e allegra leggerezza, Giacomo Campiotti racconta piccole gioie e grandi dolori dell’adolescenza nell’adattamento di un libro cult delle giovani generazioni
A un primo sguardo, il fenomeno Alessandro D’Avenia somiglia molto al caso Federico Moccia.
Entrambi, infatti, hanno scritto un libro in parte autobiografico che è diventato rapidamente un fenomeno di culto, una piccola “Bibbia” delle nuove generazioni che si sono rispecchiate nelle situazioni e nei personaggi descritti.
In realtà, le analogie fra i due autori si fermano qui, perché gli adolescenti dell’inventore di “Tre metri sopra il cielo”, mutuati dai ragazzi degli anni ’80 e così attenti a griffe e soprannomi, non hanno la sensibilità, la tenerezza e lo spessore dei protagonisti di “Bianca come il latte, rossa come il sangue”.
Che un romanzo così popolare diventasse un film era solo questione di tempo e non stupisce che l’artefice del passaggio dalla pagina al grande schermo sia stato il regista italiano forse più bravo a raccontare l’età dell’incertezza, delle infinite possibilità e dell’appassionata mutevolezza: quel Giacomo Campiotti che ama definirsi un eterno Peter Pan e che ha negli occhi l’entusiasmo di un ragazzino.
Nelle sue mani, il libro di D’Avenia è diventato un film che perfino nello stile - dai movimenti di macchina alla fotografia, dai costumi al montaggio - riproduce la volubilità, l’incostanza e la gioia di vivere dei ragazzi di sedici anni, aggrappandosi ostinatamente a questa leggerezza formale perfino quando la commedia scolora nel dramma e la felicità rischia di essere annullata dal dolore.
Già, perché il nuovo film del regista di Come due coccodrilli non è l’ennesima variante di una romcom imperniata sul sempiterno gioco del “m’ama, non m’ama”, ma una lucida riflessione sulla morte, impietosa signora che spazza via il rosso dell’amore per colorare di bianco il sangue di una studentessa di liceo che cerca disperatamente un donatore di midollo compatibile.
Lungi dall’essere un trito cancer-movie, di cui non ha né la retorica né il fastidioso indugiare sulla rovina del corpo,
Bianca come il latte, rossa come il sangue è semplicemente una lucida presa di coscienza di come una vita possa essere interrotta proprio quando è più pulsante e in corsa libera verso il futuro. E siccome il punto di vista è sempre quello del protagonista Leo, portatore sano di esuberanza, positività e di una spontaneità che è anche quella di Filippo Scicchitano, nemmeno nei momenti più cupi il racconto si fa ricattatorio.
E’ un film che piacerà ai ragazzi Bianca come il latte, rossa come il sangue, e anche alle ragazze, che se avessero un professore di italiano charmant come Luca Argentero di sicuro studierebbero Dante con solerzia. Gli adulti, invece, potranno riconoscersi nel senso di impotenza che provoca una grave malattia e negli interrogativo che Campiotti e D’Avenia sollevano circa l’esistenza di un Dio cristiano da cercare per avere conforto o da condannare per le cose brutte che succedono nel mondo.
Di Bianca come il latte convince soprattutto la seconda parte, quella in cui lacrime e sorrisi coesistono.
La prima, volutamente scanzonata, non trae certo beneficio dalla voce-off, scontato escamotage a cui i nostri sceneggiatori continuano a ricorrere soprattutto quando portano al cinema romanzi narrati in prima persona.
Con educazione vorremmo dire loro che, se un personaggio è ben scritto e caratterizzato, non c’è bisogno né di spiegazioni né di presentazioni. Le immagini in movimento hanno da sempre il grande pregio di costituire un linguaggio autonomo e decifrabile, tanto più comprensibile quando esiste una colonna sonora che ha valore diegetico. Qui il compito spetta ai Modà, che con la struggente “Se si potesse non morire” danno voce alle emozioni di un film che, anche nei momenti più terribili, resta pieno di vita.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali