Annabelle - la recensione dell'horror prequel de L'evocazione
Le origini dell'inquietante bambola demoniaca.
Le bambole, nei film horror, mi han sempre fatto paura: sarà stata colpa dell'imprinting infantile de Il triangolo delle Bermude, film che in anni pre-Moige mi sorbivo allegramente in tv nei pomeriggi che trascorrevo allo stato brado casalingo.
Annabelle, per questo motivo, aveva del potenziale implicito per il solo fatto di essere origin story della bambola omonima che appare nelle primissime sequenze de L'evocazione. Spiazza, allora, la scelta di John R. Leonetti - qui impegnato nella regia ma già direttore della fotografia di molti film di James Wan - di trattare il tema della possessione demoniaca della bambola in chiave anomala. Non ci si aspettino, infatti, da Annabelle momenti alla Chucky, o alla Zuni: perché il pupazzone, nel film di Leonetti, è tanto inquietante quanto immoto, protagonista al più di una quasi impercettibile mutazione delle fattezze.
Proseguendo nel percorso di decostruzione dell'horror post-moderno compiuto da Wan, che comprende un parallelo ritorno a origini che precedono perfino alcune tendenze del new horror degli anni Settanta, Leonetti fa di Annabelle un film dove l'omonima bambola è quasi unicamente corredo iconografico di una storia di possessioni nella quale si mescolano suggestioni provenienti da Rosemary's Baby (e della tragica storia vera di Polanski e Sharon Tate) e, in parte da L'esorcista: tanto più che nell'unico momento in cui la bambola levita sovrannaturalmente, è perché sollevata da un'oscura e semi-invisibile presenza demoniaca.
Annabelle, insomma, del film è oggetto e non soggetto.
Soggetto è il tema – piuttosto conservatore, a dire il vero – di un male che s'insinua nelle famiglie per via di una modernità perversa, e che solo un sacrificio altruistico, e ancora una volta tutto familiare e familista, può esorcizzare. Soggetti sono protagonisti che sembrano usciti da una versione discount e plastificata di Mad Men, alle prese con una nuova genitorialità, circondati da figure sempre vagamente (e un po' inutilmente) ambigue. Soggetto, per l'ennesima volta, è la maternità, i suoi fantasmi, i suoi rimossi, le sue responsabilità: perfino la sua santità.
L'elegante mondo in cui si muovono questi protagonisti, minacciato dalla nuova barbare simil-mansoniana, e quindi dalla controcultura esistente solo nella sua versione degenere e degenerata, è borghese come il film di Leonetti, capace forse di salvarsi grazie alle sue risorse più tradizionali, ma comunque destinato, col tempo, a confrontarsi con il Cambiamento.
Non si pensi però che Annabelle sia un horror teorico, o nemmeno sociologico, nonostante queste indicazioni implicite e un po' contraddittorie: la concezione del genere di Wan e dei suoi discepoli è piuttosto ludica, mirata alla costruizione di una paura scevra da troppe implicazioni, vecchio stampo, attenta al linguaggio del cinema e ai meccanismi dello spavento e molto meno ai suoi sottotesti.
Leonetti segue pedissequamente queste direttive, imbastendo un impianto formale curato ed elegante come ci si aspetta da un D.O.P. come lui, dimenticando a tratti la coerenza narrativa a favore della scena a effetto, scivolando occasionalmente in qualche ingenua banalità o in qualche eccesso di esplicitazione: e alla fine Annabelle, i suoi spaventi, le sue tensioni, si dissolvono rapidamente dopo la visione.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival