Anime nere - la recensione del film di Francesco Munzi

29 agosto 2014
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Una noir tragico e ancestrale, felicemente imploso e in minore, che racconta personaggi e archetipi, non le loro sociologie.

Anime nere - la recensione del film di Francesco Munzi

Un viaggio nel cuore nero della 'ndrangheta. Ma ancora di più, un viaggio nel cuore (nero, certo, ma dolente e doloroso) dell'animo umano: come da titolo. Un viaggio che parte da Amsterdam, passa da Milano e approda ad Africo, Aspromonte, epicentro della criminalità organizzata calabrese. Un viaggio che, con intuizione felice e portata avanti con determinazione, parte dal generale per arrivare a quel particolare che fa inevitabilmente rima con universale. Negli anni che seguono l'affresco complesso e vagamente barocco di Gomorra e delle sue tante derivazioni (tanto interne quanto esterne), Francesco Munzi sceglie una strada diversa, e compone una sinfonia tragica che lentamente e inesorabilmente si destruttura: suonata con una tonalità in minore, appoggiata sulla forza viscerale e ancestrale dei bassi morali e musicali, sulle ombre che si allungano in una fotografia sempre più plumbea, sulle lucide architetture metropolitane che lasciano il passo alla rovina, alla fatiscenza, all'archeologia dell'archetipo.

Anime nere non è una storia di 'ndrangheta. Non è un romanzo criminale, ma un dramma familiare prima e umano poi. Non vuole fare sociologia della contemporaneità, ma privilegia un approccio antropologico che ci porta in una storia senza tempo né luogo se non quelli tragici e perenni della natura umana. Tre fratelli, tre visioni della vita, del crimine, della morte. Tre personaggi uniti solo dal sangue, e che solo il sangue, nella maniera più triste e cruenta, può separare. Tre mondi che fanno e faranno sempre parte dello stesso universo, un universo che è il nostro e sempre lo sarà.

Certo, la superficie, il territorio, il campo di battaglia sono quelli del noir puro, tanto più riconoscibile globalmente quanto più legato allo specifico delle questioni italiane, delle faide e di una cultura antica sembra impossibile da sradicare. Ma da quel territorio e quella cultura, Munzi non si fa dominare o indirizzare: modella il primo per renderlo funzionale alle esigenze del cinema e del racconto, tratta la seconda con un rispetto scevro da ansie giudicanti, mai connivente né ammiccante. E così facendo, permette al noir di farsi progressivamente tragedia.

Costante rimane, invece, la voglia del regista di utilizzare un registro costantemente e felicemente imploso, arricchito dal coraggio di guardare di lato, di allargare lo sguardo, o viceversa di fissarlo è più scomodo o inaspettato. In questo modo, Anime nere diviene un film dove la tensione (sua e spettatoriale) nasce non solo dalla percezione dell'imminenza dello sparo o della morte, ma dalla scomodità di sentir vibrare dentro corde profonde, con il confronto con un mondo senza eroi, senza regole, senza speranze.

L'implosione allora monta, genera energie ed entropie spaventose, e - in un finale che giunge cupo, logico ma inaspettato - dà origine al suo inevitabile buco nero, nel quale cadono le vite di chi Anime nere l'ha dolorosamente e scomodamente popolato. Nel quale sprofonda uno sguardo che, finito il film, si ritrova a contemplare irrequieto e timoroso l'abisso oscuro e tragico della propria umanità.




  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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