Animal Kingdom - la recensione
27 ottobre 2010
Dopo aver studiato per anni, anche come giornalista, il mondo criminale di Melbourne, il film maker australiano David Michôd ha deciso di esordire nel lungometraggio esponendo il suo pensiero al riguardo.
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Animal Kingdom - la recensione
Dopo aver studiato per anni, anche come giornalista, il mondo criminale di Melbourne, il film maker australiano David Michôd ha deciso di esordire nel lungometraggio esponendo il suo pensiero al riguardo. Animal Kingdom è infatti un film che una storia che da un lato mira a raccontare la realtà socio-antropologica di un mondo malato ed endemicamente corrotto e malvagio, e dall'altro tenta di catturare lo spirito della grande epica criminale cinematografica.
Perché il mondo animale del titolo è quello in cui si ritrova un diciassettenne che, dopo la morte della madre per overdose, finisce a vivere con gli zii criminali incalliti e ai margini della psicopatia e con la nonna che li accudisce con spietato affetto. Un mondo che dapprima affascina per il senso di potere e sicurezza che garantisce, ma che presto si rivela in tutta la sua cancerosa pericolosità, costringendo il giovane a scelte difficili: come quella tra la fedeltà al sangue e un tradimento che potrebbe salvargli la vita, o quella tra un'adesione che significa trasformazione in belva o una fuga verso una normalità legale ma debole e anonima.
Non tratta di questioni originali, Animal Kingdom: non nelle premesse, non nello svolgimento. Ma la dissezione socio-antropologica che Michôd si era prefisso appare nel complesso corretta e sincera, per quanto priva di spunti e riflessioni realmente personali, limitandosi ad una esposizione di dinamiche tristemente risapute. Dove il film dell'australiano dimostra più limiti è nel tentativo dell'autore di catturare lo spirito e l'essenza della grande epica criminale e morale di certo cinema gangsteristico.
Da questo punto di vista, Animal Kingdom ha infatti il fiato un po' corto: forse perché zavorrato dalla voglia di dire troppo, di mettere costantemente carne al fuoco, dal tentativo di dare spazio e attenzione ad una pluralità di soggetti, col risultato di penalizzarli un po' tutti. E anche nello stile l'australiano dimostra qualche incertezza, cercando di alternare un realismo scorsesiano a tocchi più arty che mal si amalgamano gli uni con gli altri.
Di Animal Kingdom, che avrebbe giovato di maggiore concisione, rimane soprattutto il personaggio della matrona di questa famiglia folle e pericolosa, interpretata da una bravissima Jacki Weaver: il personaggio in grado di suscitare non solo i maggiori interessi ma anche gli interrogativi morali e antropologici più grandi nel film, calamitando lo sguardo e i pensieri di chi guarda. Una donna di stampo e statura shakespeariane, Una madre che ama con affetto e ferocia, una leonessa appassionata e astuta che è allo stesso tempo incapace di tenere a bada la furia del suo branco per eccesso d'amore e capace di gesti atroci e cannibalistici pur di mantenerne la compattezza. Un simbolo di tutte le complessità e le ambiguità del ruolo materno e di tutto un sistema sociale.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival
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