Aftersun: recensione dell'acclamato esordio di Charlotte Wells
Considerato da buona parte della critica internazionale come uno dei migliori film visti nel circuito festivaliero nel 2022, il film interpretato da Paul Mescal e Frankie Corio arriverà in sale selezionate dal 5 gennaio e in streaming in esclusiva su MUBI dal 6 gennaio.
Sophie ha undici anni. Calum trenta, ne sta per compiere trentuno. Li festeggerà nel villaggio vacanze che li ospita, da qualche parte lungo la costa turca. Sophie e Calum vengono scambiati per fratelli, ma in realtà sono padre e figlia, in vacanza assieme: una vacanza che li riunisce, loro che vivono distanti, lui dalle parti di Londra, lei a Edimburgo con la mamma.
Il punto di vista è quello di Sophie, e Aftersun è l’insieme randomico e disordinato dei suoi ricordi, che sporadicamente si intrecciano con immagini del presente, reali o immaginarie. Immagini di una Sophie adulta, e di un Calum rimasto come allora.
Nella sua evidenza, nell’evidenza di sequenze che punteggiano una vacanza e raccontano due caratteri e un rapporto, di scene sempre sospese nell’eterno e incerto, ovattato presente della memoria, studiate e girate dall’esordiente Charlotte Wells con un gusto per l’inquadratura, la fotografia e il cinema che è segnale di evidente talento, tutto di Aftersun è chiaro. Palese.
Quei due si vogliono un gran bene, anche se la ragazzina è distratta dall’irrompere disordinato della vita adulta e delle pulsioni erotiche garantite da chi ha poco più dei suoi anni e di mette in mostra, e il padre è chiuso in una serie di problemi che, senza mai essere davvero esplicitati, non sono solo economici, o esistenziali, ma attorcigliati attorno a ben celato mal di vivere.
In più, Calum è chiaramente preoccupato per il futuro della figlia, e cerca di metterla in guardia contro i rischi degli abusi di sostanze (“puoi parlarmene, ho provato tutto”, le dice) e di insegnarle le basi dell’autodifesa.
Quello che allora diventa chiaro, o forse no, ma che comunque non è mai lì nell’evidenza, perché Charlotte Wells è ben attenta a non sporcare il suo film con qualcosa che si avvicini appena al didascalismo, è che quella vacanza lì, quell’incontro tra un padre e una figlia che vivono lontani, è forse stato l’ultimo. E se già la goffagine, la ruvidezza, la sincerità e la semplicità candida e mai banale che sta dentro le tante istantanee del ricordo che compongono il film potevano risultare commoventi, quando inizia a insinuarsi il dubbio di una sparizione e di un lutto, tutto diventa emotivamente ancora più forte.
Non è un film di parole, Aftersun. Le parole, che pure ci sono, sono sempre inadeguate, banali, imbarazzate, incerte o perfino sbagliate. Quello che conta, in Aftersun, che conta per Sophie e Calum, e per noi che li stiamo a guardare, sono i gesti, i silenzi, gli spazi, le traiettorie dello sguardo. Aftersun, non solo per questo, ma anche per questo, è un film di immagini. Di immagini forti, potenti, fatte di cinema e con grande consapevolezza: quella per cui l’immagine, al cinema, è estetica e racconto assieme.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival