A proposito di Davis - la recensione del film di Joel e Ethan Coen

19 maggio 2013
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In mezzo c'è stata la parentesi western (a modo loro) de Il grinta, ma i fratelli Coen riprendono il discorso laddove l'avevano lasciato con un film ingiustamente sottovalutato come A Serious Man.

A proposito di Davis - la recensione del film di Joel e Ethan Coen

In mezzo c’è stata la parentesi western (a modo loro) de Il grinta, ma i fratelli Coen riprendono il discorso laddove l’avevano lasciato con un film ingiustamente sottovalutato come A Serious Man. E sottovalutato, probabilmente sarà anche questo Inside Llewyn Davis, che del film del 2009 è (il)logica prosecuzione, nuovo capitolo di un discorso iniziato, forse, già con L’uomo che non c’era.
Splendidamente fotografato da Bruno Delbonnel, che non fa rimpiangere l’assenza del “solito” Roger Deakins e che utilizza una paletta cromatica tutta autunnale, Inside Llewyn Davis è infatti un film carico di struggente malinconia, di tagliente sarcasmo esistenziale, di umorismo e filosofia Yiddish.

Parafrasando la vera vita del folk singer Dave van Ronk, i Coen fanno del Llewyn Davis ben interpretato da Oscar Isaac l’ennesimo loro personaggio in perenne affanno contro la vita e il suo irrimediabile caos, un artista di talento che si barcamena nell’esistenza quotidiana alla ricerca di un successo che è destinato a sfuggirgli: di un soffio ma a sfuggirgli.
Il racconto si costruisce attraverso una successioni di momenti quotidiani e (spesso, per questo) paradossali, nei quali seguiamo il dibattersi inutile di Llewyn, condannato a mancare le cose per un soffio, ad un eterno ritorno negli stessi luoghi, all’amara presa di coscienza della circolarità dell’esistenza nonostante i suoi tentativi vadano in una direzione che si dimostra impossibile.
Impossibile perché l’egoistica chimera inseguita da Llewyn gli sfugge di continuo, e perché lui si ostina testardamente a non prendere le deviazioni (metaforiche e fisiche) che incontra lungo il cammino, a ignorare i segno del fato, a lasciar andare ciò che gli si para di fronte proprio per essere afferrato. E lui rimane sconfitto sì per via delle circostanze ma anche di sé stesso.

Nel ragionamento dei Coen c’entra l’arte, indubbiamente. Il suo senso e la sua ossessione. Ma c’entrano ancora di più la vita e la Storia, perché Inside Llewyn Davis travalica il suo contesto Greenwich Village primi anni Sessanta, e si fa parabola universale di un perdente (per scelta) nel quale, in un modo o nell’altro, per sogni o per scontrosità, per passioni o per inettitudine, ci possiamo riconoscere tutti.
Indubbiamente, vi si riconoscono i Coen, che dimostrano per questo protagonista un’empatia, perfino una tenerezza forse inedite nel loro cinema. Un cinema che non s’illude più di poter scartare in avanti, di essere realmente interprete del tempo in cui è calato, e che proprio in virtù di questa serena consapevolezza cerca il nuovo nei risvolti del consunto plaid dell’esistenza, fra i cuscini del vecchio divano della Storia, nell’ennesima cover del grande brano folk della Vita.





  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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