A Classic Horror Story: recensione dell’horror Netflix di Roberto De Feo e Paolo Strippoli
Con a Classic Horror Story Roberto De Feo e Paolo Strippoli rendono omaggio al cinema dell'orrore anni Settanta e Ottanta e pescano nel folklore del Sud Italia per avvertirci che la realtà fa più paura di qualsiasi finzione. Nel film, targato Netflix, recita un'intesa Matilda Lutz.
Sulla maglietta di uno dei personaggi di A Classic Horror Story, per la precisione il nerd del gruppo, c'è scritto "spoiler", a ricordare a chi ha visto il film di Roberto De Feo e Paolo Strippoli che al cinema spoilerare è peccato mortale, e siccome il twist dell'horror targato Netflix è davvero sensazionale, non potremmo farlo e non lo faremo. Quello che invece possiamo fare, prima di dire la nostra su questa classica storia dell'orrore, è che il film andrebbe visto su uno schermo il più grande possibile, perché non siamo nel territorio del b-movie o del prodotto low-budget, ma di un'opera curatissima e raffinatissima in cui le immagini non hanno meno importanza dei suoni, e il rosso del sangue e delle lingue mozzate attira lo sguardo di chi è seduto inerme in una poltrona al buio come carta moschicida, per poi traumatizzarlo a dovere.
Come recita e annuncia il titolo, A Classic Horror Story è e vuole essere una summa non solo del miglior cinema horror degli anni Settanta e Ottanta, a cominciare da La casa di Sam Raimi e Non aprite quella porta di Tobe Hooper, ma anche un'enciclopedia delle insidie, dei cliché, delle sorprese, dei luoghi di morte, delle sevizie e anche dei classici personaggi di un genere narrativo di cui conosciamo ormai trucchi e trucchetti e che forse è ancora quello più in voga, perché continua a essere lo specchio delle nostre paure più profonde. I registi questo lo sanno, e ci prendono spudoratamente in giro facendoci intuire chi morirà per primo dei 5 carpooler che si ritrovano in mezzo al nulla, regalandoci due ragazze dalle gambe lunghe e il looser di turno, suggerendoci chi delle due diventerà la scream queen e portandoci in una fitta foresta e in una casa dove le torture e i culti raccapriccianti sono all'ordine del giorno. Volutamente De Feo e Strippoli fanno dei loro sprovveduti ragazzi (o meglio di alcuni di loro) carne da macello, e la prevedibilità del plot forse sconcerta l'appassionato di assassini e di carneficine, che tuttavia, intuendo che ci sarà certamente dell'altro, non può non ammirare l'estetica della rappresentazione.
Roberto De Feo lo conoscevamo da The Nest - Il Nido, interessante film dove la tensione era nelle atmosfere cupe di una villa-prigione. Anche la piccola magione abbandonata di A Classic Horror Story è spaventosa: perché somiglia perfino a una chiesa, perché le pareti interne in rosso la fanno sembrare una ferita aperta e perché, quando appare, si sente in sottofondo "Era una casa molto carina", una canzoncina che i più grandicelli avranno certamente cantato da bambini. E’ proprio in questa strana dimora che operano non Jason, Leatherface e Freddy (o delle loro versioni aggiornate), ma tre individui ben più "anziani": Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Ebbene sì, De Feo e Strippoli vanno a pescare nel folklore italiano, recuperando la leggenda sui tre fratelli imprigionati a Favignana che Roberto Saviano ama chiamare in causa per spiegare l'origine della Mafia, della 'Ndrangheta e della Camorra. Ecco dunque che, tramite queste figure, il film scarta il soprannaturale e insiste su una realtà che è ben più raccapricciante di qualsiasi finzione, e quindi sul male commesso dall'uomo e perpetrato per secoli, oltre che sulla spettacolarizzazione del dolore e sul voyeurismo di chi esorcizza i propri timori contemplando le altrui tragedie. Attenzione, però, non siamo nel territorio del film di Mafia, e i vari sacrifici umani vanno sempre di pari passo con l'ironia. Poi arriva la sorpresa, e il film si ribalta, e allora emerge con prepotenza la genialità di una sceneggiatura che partiva in sordina per poi diventare potente, perfino dissacratoria.
A Classic Horror Story è un film solo per appassionati di horror? Certo è un divertissement per i cultori del genere, che si troveranno anche a ridere della loro sterminata competenza. Tuttavia, per chi non ama squartamenti e occhi cavati dalle orbite, c'è molto su cui riflettere e amareggiarsi. Se dobbiamo paragonare il film a The Nest - Il Nido, è al secondo che va la nostra preferenza: per la tridimensionalità dei personaggi, l'aura malinconica che avvolge piccolo protagonista e per la favolosa e tetra ambientazione, oltre che per un’inquietudine che a fine visione ci restava addosso. Qui, oltre ad ammirare Matilda Lutz, bella e intensa, ci siamo svagati e gustosamente meravigliati, ma non ci portiamo dietro quell'incanto e quel sogno che sono la più straordinaria conseguenza della sospensione dell'incredulità.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali