12 anni schiavo - la recensione del film di Steve McQueen
Quello del regista inglese è solo l’ultimo in ordine di tempo in un lungo elenco di film eticamente “importanti” che raccontano la loro storia di soprusi e sofferenze.
C’è una scena, in 12 anni schiavo, che ci pare forse la più significativa.
Quando l’odioso carpentiere interpretato da Paul Dano tenta di linciare il protagonista Chiwetel Ejiofor, e viene fermato, lo schiavo non viene però liberato dal cappio che lo stringe: dovrà essere il padrone della piantagione, a farlo.
E allora Solomon rimane così, appeso per il collo, le punte dei piedi che faticosamente toccano il terreno fangoso, sofferente, agonizzante; rimane così per ore, in attesa che torni il suo padrone, mentre attorno a lui gli altri schiavi si svegliano, ridono, giocano, lavorano, incuranti dell’orrore che si trova a pochi metri da loro.
Quella scena non è la più significativa perché racconta, come molti altri film che trattano del Male umano, come la banalità dello stesso diventi facilmente abitudine e normalità per le stesse persone che lo subiscono. Perché quest’idea, pur sacrosanta e centrale nel film di Steve McQueen, viene ribadita ossessivamente lì come altrove.
Non è nemmeno la più significativa per la composizione attenta e pittorica dell’inquadratura, per la sapienza con la quale la luce è stata tagliata, e il sonoro montato e adeguato: perché non si sono dubbi che 12 anni schiavo sia figlio di uno sguardo formalmente attento e pronto a scartare esteticamente verso terreni astratti e “artistici”, sia nell’uso delle immagini che del tappeto sonoro, efatizzando le sospensioni che aspettano di essere riempite di senso.
No.
Quella scena è significativa perché simbolica del rapporto dello spettatore con il film. 12 anni schiavo lo si guarda, lo si vede, lo si riconosce; magari lo si compatisce. Ma il male e l’orrore che racconta non si tocca se non con lo sguardo: non ci tocca, ci lascia alle nostre vite come nulla fosse.
Sotto la sua eleganza formale, all’evidenza di tematiche indubbiamente importanti e (per questo) fagocitanti ogni considerazione al riguardo, 12 anni schiavo è solo l’ultimo in ordine di tempo in un lungo elenco di film eticamente “importanti” che raccontano la loro storia di soprusi e sofferenze, e dove lo schiavismo sarebbe perfettamente intercambiabile con la Shoah o con la violenza di una dittatura o con qualsiasi altro orrore; e lo fa, come altri hanno fatto,con il chiaro intento di stimolare un’indignazione salottiera, uno scandalo passeggero, e non di perturbare realmente le certezze e la coscienza di chi guarda.
Alla sua terza prova dietro la macchina da presa, McQueen sembra estremizzare i difetti già presenti in Shame, convinto che l’importanza del tema e l’emotività della storia possano sorreggere le sue ambizioni e dare senso alla costante tensione alla rarefazione che contraddistingue il film, e che scivola nelle patinature di chi è fin troppo consapevole dei propri mezzi. E, al contrario, dimentica come era stato capace di raccontare le sofferenze del corpo e della mente in Hunger, di come avesse trovato il sentiero narrativo e formale capace di combinare testa e pancia senza penalizzare nessuna delle due parti e di lasciare segni scomodi e profondi nel suo spettatore.
McQueen ha richiesto a Ejiofor, comunque bravo, una performance costantemente ovattata, inebetita, un atteggiamento spaesato e sottovuoto che raccontasse la rassegnazione sotto al quale covava la speranza e la brama di vivere. E quella performance e quell’atteggiamento, per il regista, dovrebbero essere quelli degli spettatori coccolati da un dramma di cui avrebbero suppostamente bisogno di sentirsi raccontare, quasi rassicurati dalle interpretazioni degli attori e dalla sapienza della regia, sedotti con una mollezza tutta southern da un film che si abbandona, però, subito dopo i titoli di coda.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival