10 giorni senza mamma: la recensione della commedia di Alessandro Genovesi con Fabio De Luigi e Valentina Lodovini
Leggera ma non cretina, mai volgare, urlata o sbracat, libera da manicheismi ideologici e tutta gentilezza e semplicità. Un mezzo miracolo, quasi.
Ammetto di essere partito un po’ prevenuto. Pensavo che 10 giorni senza mamma potesse risolversi nella solita commedia che gioca con banalità un po’ antistorica sull'inettitudine del maschio di fronte ai doveri domestici e alle responsabilità paterne.
Poi però ho dovuto rimettere i pregiudizi in tasca, assieme alla permalosità maschile, perché quello di Alessandro Genovesi è un film che certe cose le dice e non le dice, e quando le dice le dice bene, e finalmente esce da una logica di contrapposizione e di schieramento, andando a pescare la verità dalla quale germogliano quelli che poi diventano luoghi comuni.
Le cose stanno così: Giulia (Valentina Lodovini) ha lasciato il suo lavoro di avvocato quando è nata la sua prima figlia, 13 anni fa, e di figli ne ha poi fatti altri due. Della sua scelta è contenta, ma un po’ di stanchezza la sente, è normale, e questa stanchezza magari a volte si traduce in tensione domestica, ma è normale anche questo, e le cose comunque si risolvono. Fatto sta che quando decide di andare in vacanza con la sorella, a Cuba, e per 10 giorni, e lo dice a suo marito Carlo (Fabio De Luigi), Carlo ci rimane un po’ così, ma più di tanto non può dire, perché in fondo ha provocato.
Ci rimarrei un po’ così anche io. Anche perché, insomma, certi spettri sono comprensibili (il mare, i cocktail, i cubani), e poi c’è anche il lavoro cui Carlo deve badare.
Se però la premessa è questa, ed è piuttosto standard, quello che succede dopo è meno scontato. Meno scontate le reazioni e le azioni di Carlo, e quelle dei suoi tre figli, con cui deve sostanzialmente imparare ad avere a che fare.
Non è che Genovesi non consideri le cose ovvie e banali, ma quelle cose le pianta come paletti d’avvertimento per poi farci lo slalom intorno, passando più o meno radente al cliché, ma sempre per superarlo, o per guardarlo da una prospettiva che non è quella che ti aspetti o ti viene proposta solitamente.
Penso si possa capire molto dei film dalle auto che vi appaiono, e 10 giorni senza mamma è un film dove il protagonista guida una Subaru Forrester che ha almeno una decina d’anni. Non una Volvo Polar, magari malandata ma molto cool, né un moderno e potente SUV.
Lasciando da parte le auto, 10 giorni senza mamma non è (o non è del tutto) un film sui sessi, sulle donne e sugli uomini, e su quello che fanno o non fanno le une o gli altri, a dispetto di spunto e titolo.
Certo, di cose giuste (e vere) sui ruoli materni e paterni all’interno di una famiglia di cose ne dice. Ma non ci sono manifesti, né intenti polemici: tenta piuttosto una fotografia, col filtro della commedia, di quello che può accadere in una famiglia oggi quando si cerca di conciliare famiglia e lavoro. Uomini o donne che si sia.
Ma prima ancora di tutto questo, 10 giorni senza mamma è la storia di un personaggio che deve imparare a chiedere scusa per gli errori che ha commesso, magari anche in ottima fede, e che deve provare a recuperare il terreno perduto, e a rimettere bene in ordine e in prospettiva quello che conta davvero nella vita: a casa, e sul lavoro.
In questo senso, allora, quello di Genovesi è un film che parla con leggerezza di cose serie, serissime, e che lo fa quasi en passant, per evitare di calcare troppo la mano: basti pensare al modo in cui racconta la storia, potenzialmente dardenniana, che coinvolge il personaggio di Diana Del Bufalo, commessa di supermercato licenziata da Carlo per motivi di carriera.
Allora forse sì, c’è eccome la politica nel film di Genovesi. Non tanto quella dei generi, ma quella di un sistema socio-economico che macina e schiaccia e allontana, cui il regista contrappone quella - oggi fondamentale - dell’amore, della gentilezza, dell’ascolto, e del tempo necessario alla cura.
Forse è perché ho due femmine anche io, ma le cose più belle, e i momenti più intimi, Carlo li trova con le due figlie, di 13 e 2 anni; quelle forse più lontane da lui, che è ancora un po’ bambinone, di quanto non sia il figlio di 10. Momenti che nascono da quella subitanea illuminazione affettiva che emerge al crocevia tra il sentimento, la rassegnazione e il dovere. E in quei momenti lì, ecco che 10 giorni senza mamma trova una verità e una tenerezza insospettabili, e rimanendo sempre semplice, asciutto e scanzonato.
Poi, intendiamoci: non stiamo parlando di un capolavoro imperdibile.
Parliamo però di un film capace di dimostrare che fare una commedia commerciale leggera ma non cretina, e mai volgare, che non sbraita e non diventa becera, e che ha cose da dire senza per questo voler salire su un piedistallo e arringare o giudicare, che parli di famiglia in maniera non ideologica e nella quale i bambini sono diretti come si deve, beh: è qualcosa che è ancora possibile.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival